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”L’unico a tifare per il Napoli” la scalata di Sarri, l’allenatore ”proletario” dal posto in banca fino alla panchina azzurra

Dalla provincia toscana fino alla panchina del Napoli. Scopriamo meglio la storia di Maurizio Sarri il nuovo tecnico degli azzurri

“Per il Napoli. A Figline ero l’unico, tutti gli altri tenevano al Milan, all’Inter, alla Juve, alla Fiorentina. Mi sembrava naturale tifare per la squadra della città dov’ero nato”

Figline Valdarno, negli anni ’60 contava 13mila abitanti scarsi. Un tipico paesino toscano, con quelle sue architetture rinascimentali, chiesette romaniche e colline appena fuori dal centro abitato. Nella piazza, come al solito, si riuniscono i bambini per giocare a calcio. Giubbini usati come porte, pallone sgonfio ed economico e il più piccolo sbattuto a fare il portiere tra i pali. Qui, come in ogni altra parte del mondo, si gioca imitando i propri campioni, quelli che, i più fortunati, avevano visto qualche volta da vicino nel Franchi di Firenze. C’è chi tifa Juve, chi Milan, chi Inter, chi invece Fiorentina. Poi c’è un ragazzino, un difensore senza fronzoli, come amava definirsi lui, che ha una particolarità: tifa Napoli. Il suo nome è Maurizio Sarri.

La firma è arrivata pochi minuti fa. È ufficiale. È lui il nuovo tecnico del Napoli. Guarda che scherzi fa il destino. Nessuno qualche anno fa l’avrebbe immaginato. E di certo non l’avrebbe mai immaginato neanche il padre. Ex ciclista di belle speranze, a 25 anni capisce che di solo ciclismo, se non sei un professionista, difficilmente puoi vivere. Così si reinventa macchinista. Nel frattempo a Roma qualcuno decide che è venuto il momento di concedere qualche industria pure al Sud. “Dobbiamo fare l’Italsider”. E la famiglia Sarri scende a Napoli per lavorare alla costruzione di quel grande impianto siderurgico a Bagnoli. Maurizio nasce proprio mentre il padre lavora alla costruzione di quello che, anni dopo, diventerà un ecomostro in grado di deturpare e inquinare l’intero paesaggio di Bagnoli.

“C’è da giocare a calcio, avrebbe detto mio nonno, mica da scaricare un camion. Si chiamava Goffredo […]. Da partigiano, recuperò i piloti di un aereo Usa abbattuto in val d’Arno, li nascose, e a quei tempi ti fucilavano per meno, e li consegnò agli inglesi quando passarono il fronte”

Dal padre eredita la passione per la bicicletta. Passione breve, l’abbandonerà attorno ai 12 anni per concentrarsi sul calcio. Dal nonno invece il modo di vedere il mondo, le idee. Maurizio Sarri non è uomo di compromessi, in campo e fuori. Ha le sue idee, e poco importa cosa ne pensino gli altri. In un mondo di allenatori incravattati, lui tira dritto in tuta. E alle dichiarazioni di rito preferisce rispondere fuori dal coro. Come quando alla domanda sul perché non portasse mai sciarpe e spillette per gli eventi di beneficienza rispose senza peli sulla lingua: “Non le indosso perché penso che della ricerca contro il cancro o la distrofia debba farsi totalmente carico lo Stato, in un Paese civile […] La mia generazione lascia ai suoi figli qualcosa di peggio, più di vent’anni di deriva civile, sociale, etica ed economica. Il futuro mi preoccupa molto, e non parlo di calcio”  Oppure quando alla domanda sul perché fosse l’unico in Serie A a non indossare giacca e cravatta rispose: “Non faccio mica l’indossatore”.

“Mi occupavo di finanza interbancaria, giravo l’Europa, in inglese mi facevo capire. Nel ‘99 con l’euro lavorare nei cambi rendeva meno. Da allenatore, salendo di categoria, capivo che sarei riuscito a campare ugualmente, ma soprattutto non ne potevo più di andare in ufficio e di aspettare con impazienza di staccare alle 17 per andare sul campo”

Su quella panchina Sarri avrebbe benissimo potuto non sedersi affatto. Aveva un posto in banca, tranquillo. La comodità del posto fisso. Molti si sarebbero fermati. Otto ore di lavoro, poi si torna a casa, birretta davanti alla televisione e letto. E così giorno dopo giorno. Sarri invece no, sente il richiamo del campo. Inizia a fare l’allenatore quasi per hobby, nel tempo libero, gratis. Poi man mano sale di categoria. Falese, Cavriglia, Antella. Al 99% di noi questi nomi non dicono nulla, ma sono i primi gradini della scalata di Sarri. Arrivano le prime soddisfazioni e il momento delle scelte. Provare a diventare un allenatore di livello o restare a lavorare in banca? Che domande, via la giacca e quella cravatta sempre troppo stretta e vai con la tuta.

Dalle serie inferiori arriva fino alla C, poi la B. Nel 2005/06 salvezza a Pescara. L’anno dopo viene chiamato sulla panchina dell’Arezzo in sostituzione di un Antonio Conte che aveva fatto disastri. Nonostante i pareggi contro Juve e Napoli, e nonostante una grande partita in Coppa Italia contro il Milan l’Arezzo preferì richiamare Conte, il quale non riuscì ad evitare la retrocessione. Come ogni storia però arrivano anche i momenti bui. Passaggi a vuoto, come  a Verona. O problemi con le società, come ad Avellino. E una carriera che, purtroppo, stenta a decollare. Sarri accetta anche il passo indietro, prima all’Alessandria e poi Sorrento in Lega Pro. A dargli nuovamente fiducia è l’Empoli. Qui la consacrazione. In due anni centra prima i play-off e poi la promozione diretta. È Serie A!

“Quelli della mia generazione si sono abbeverati a Sacchi, […] certamente ha portato qualcosa di nuovo nel calcio italiano, a livello di mentalità. Sacchi ha vinto tutto, ma io considero grandissimi esempi anche il Foggia di Zeman e il primo Chievo di Del Neri”

 L’Empoli stupisce tutti. bel gioco, concretezza, il giusto mix tra gioventù ed esperienza. Ma non sempre i risultati arrivano. Il presidente Corsi lo chiama in sede. Il timore di un esonero c’è. Corsi invece gli propone il rinnovo, fino al 2017. È il punto di svolta della stagione dell’Empoli. Da lì in poi, oltre al bel gioco, arrivano anche i risultati. E scalpi eccellenti. Uno su tutti quello del Napoli.

Forse un segno del destino, ma quella notte, mentre Higuain e compagni franavano sotto i colpi dell’intensità del gioco di Sarri, De Laurentiis deve essersi detto “E se fosse lui il nuovo allenatore”. Suggestioni di metà campionato, che però hanno, forse un po’ inspiegabilmente, trovato concretezza in una calda sera di giugno, all’hotel Vesuvio. De Laurentiis vuole Sarri, Sarri non fa mistero di volere il Napoli. Detto fatto. Arriva anche la firma.

Il campo dirà se questa storia avrà un lieto fine o se Sarri sarà solo una parentesi incolore nella storia del Napoli. Nel frattempo una cosa è certa. Chiedetegli pure di vincere lo Scudetto, ma non chiedetegli mai di mettere la giacca. Sarri è così, un allenatore “proletario”, con le sue idee, il suo modo di vedere il calcio e il mondo. E forse, anche solo per questo, una grande chance se la merita tutta…

Servizio a cura di Giancarlo Di Stadio

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