E così si giocherà a Doha. E prima di Doha ci fu Pechino, e prima di Pechino ci fu Tripoli, e prima di Tripoli ci fu East Rutherford nel New Jersey, e prima di East Rutherford ci fu Washinghton. Più che Supercoppa italiana meglio definirla “Supercoppa itinerante”. Con Doha avremmo toccato il quarto continente su cinque, per fare il pieno mancherebbe solo l’Oceania. E siamo sicuri che, da qualche parte nella Lega Serie A, l’idea di giocarla a Sidney sarà anche stata presa in considerazione.
Ora, va bene che giocarla all’estero significa soldi (che poi, in rapporto alle entrate complessive di un club, non sono poi così tanti soldi), va bene che significa visibilità (in teoria un cinese interessato, e non credo siano così interessati, potrebbe benissimo vederla in televisione o in streaming su internet), ma, lasciatemelo dire, ai tifosi nostrani chi ci pensa?
D’accordo che ormai il calcio è sempre più economia e sempre meno sport, d’accordo che al momento i presidenti preferiscono più un bell’assegno di partecipazione staccato dallo sceicco di turno che alzare quel trofeo, ma diciamocelo chiaramente, che senso ha giocarla (quasi) senza tifosi? Il discorso è ampio, e non prendetela come un anacronista sfogo di un nostalgico di un calcio che non c’è più. Anzi, chi scrive e tra i primi a criticare le assurde limitazioni agli stranieri che da più parti si vorrebbero imporre. Chi vi scrive è tra i primi a ritenere che chiudersi nel proprio orticello, tornare ad un’autarchia calcistica, non è mai la soluzione giusta. Ma una cosa è il campo, una cosa sono gli spalti.
Il ritorno economico c’è, quello di immagine pure. È il senso di giocare una sfida senza tifosi a mancare. Diciamocelo chiaramente, quanti tifosi da Torino o da Napoli, prenderanno il primo volo per Doha solo ed esclusivamente per vedere questa partita? O ci piace così tanto assistere alle scene tragicomiche di Pechino, con comparse cinesi vestite di bianconero che erano sugli spalti sono per fare scena, senza minimamente comprendere tutto ciò che c’è dietro ad un Napoli-Juve. E quest’anno dopo i cinesi toccherà agli arabi tifare per la Juve perché è più forte o magari per il Napoli solo perché da quelle parti passa spesso Maradona.
E tutto quello che dovrebbe esserci dietro ad una semplice partita di calcio? Tifo, appartenenza, identità? Tutto cancellato sull’altare della global economy. Juve e Napoli, ma sarebbe lo stesso anche per le altre qualora avessero disputato la Supercoppa, diventano nella cornice di Doha due marchi da esportare, due prodotti da mettere in mostra, in una sorta di Expo del calcio italiano. E da squadre diventano un amorfo insieme di calciatori, in campo più per mostrare un brand che per vincere un trofeo. E chi a quel marchio da significato e ragione di esistere relegato a 4mila kilometri, a casa, al massimo con gli amici davanti alla Tv. Perché a Doha non c’è tifo, non almeno come lo intendiamo noi. Solo un vuoto mostrare due brand, forse per illuderci che la Serie A sia ancora appetibile. E pazienza se sugli spalti, che pure saranno gremiti da appassionati arabi, ci sarà al massimo una generica simpatia per l’uno o per l’altro club. L’assegno gli sceicchi l’hanno staccato. Per la gioia di De Laurentiis, Agnelli, di Tavecchio, Lega e sponsor vari.
Simpatizzare è differente da tifare. E per quanto gli arabi possano essere coinvolti emotivamente non ci sarà mai lo spettacolo e l’emozione che avrebbero potuto regalare le curve di Napoli e Juve. Il “No a Pechino” che due anni fa tappezzava Napoli, tanto da indurre De Laurentiis ad una goffa ed inutile retromarcia sulla Supercoppa in Cina, è forse il grido di un modo di intendere il calcio che sta morendo. Se gli arabi pagano per i presidenti e per chi comanda il calcio è giusto andare a giocare a Doha, così come se i cinesi pagano è giusto giocare a Pachino. È business, economica, finanza, o più volgarmente soldi. D’altronde la cornice è suggestiva, perfetta per quel calcio sempre più teatro borghese e sempre più lontano dal popolo, così come desidererebbero ai piani alti.
E se i tifosi non vengono pazienza, riempiremo lo stadio di simpatizzanti arabi o cinesi pronti ad imitare, e male, i decennali cori di sostegno, sfottò e purtroppo anche insulto che le varie tifoserie di dedicano ogni domenica. I giocatori ci sono, gli arbitri pure. I presidenti si accomodano in tribuna, gli sponsor sono ben in vista e l’assegno delle sceicco fortunatamente non è scoperto. Ci sono tutti, mancano solo i tifosi. Ma chi se ne importa, in fondo i tifosi sono solo quelli che danno significato, appartenenza ed identità a ventidue persone che corrono dietro ad un pallone.
Servizio a cura di Giancarlo Di Stadio
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