Se il minuto 67 di Lazio-Napoli passerà alla storia del calcio italiano lo si deve essenzialmente ad un avvocato di Firenze che nei weekend (e a volte anche durante la settimana) fa l’arbitro di Serie A. Massimiliano Irrati con la sua decisione di sospendere temporaneamente il match tra Lazio e Napoli, a causa dei continui insulti di stampo razzista che piovevano dagli spalti nei confronti del calciatore del Napoli Kalidou Koulibaly, potrebbe aver creato un precedente. O quanto meno, nella peggiore delle ipotesi, aver costretto il calcio italiano a fare i conti con quel sottile filo che divide l’insulto dal razzismo, il deprecabile ma tollerabile dall’intollerabile a priori.
Come detto Irrati, dopo diverse segnalazioni agli ispettori federali, ha deciso, dopo che Maurizio Sarri ha sollecitato il quarto uomo su quanto stava accadendo nei confronti di Koulibaly, di sospendere il match. Occhio, non è la prima volta che un match viene sospeso per insulti di stampo razzista. Basti pensare ai casi, anche abbastanza recenti, di Boateng o di Zoro. Ma è la prima volta, almeno ad alto livello, che il match viene sospeso su iniziativa del direttore di gara. Come detto non sappiamo se questa presa di posizione aprirà la strada ad un deciso cambiamento nel costume del tifo italiano, ma siamo certi che la sospensione della partita ha quantomeno avuto l’effetto di mettere il calcio italiano di fronte a se stesso per l’ennesima volta.
Il “piccolo passo” di Irrati potrebbe aver spianato la strada al “grande passo” del calcio italiano che però, come sempre, si trova di fronte alle sue mille contraddizioni ed ipocrisie. Nel gioco delle parti il ridimensionamento di determinati comportamenti da parte di Pioli se da un lato risponde alla logica del tutelare il proprio orticello, dall’altra denota una, non necessariamente in cattiva fede, impreparazione del mondo del calcio riguardo a certi argomenti.
Il razzismo è sbagliato? Certo, nessuno, nemmeno il più reazionario dei presidenti della Serie A lo negherebbe mai. Ma qual è il limite tra lo sfottò e il razzismo? Quando da un’offesa si passa ad un insulto? Sono tutte domande che il calcio italiano dovrebbe affrontare una volta per tutte. E il gesto di Irrati potrebbe servire in tal senso come una spinta alla riflessione. Solo un paio di settimane fa l’elitè mediatica e calcistica si scandalizzava per il “frocio” di Sarri a Mancini. Polemica che, non trovando l’appoggio (forse tanto sperato) del tifo “dal basso”, ha finito presto per sgonfiarsi e per ritorcersi nell’ambito della “bolla mediatica” contro il tecnico dell’Inter. Adesso l’opinione pubblica sembra essersi compattata nel definire vergognosi gli ululati razzisti rivolti a Koulibaly e i cori anti-Napoli che però, molti fanno notare, “ci sono da sempre”
E forse è proprio quel “ci sono da sempre” a far capire l’importanza della sospensione del match tra Lazio e Napoli. La logica del “è sempre stato così”, la presunta immutabilità (non si sa su quali basi teorizzata) di certo (mal)costume, è messa forse per la prima volta davanti all’evidenza. La partita per razzismo può essere sospesa, in barba a certi dirigenti federali che quest’estate, con un patto ed un colpo di spugna, depenalizzavano la discriminazione territoriale, declassandola ad insulto di Serie B, in nome proprio di quella logica dei cori che “si sono sempre cantati”.
Proprio la discriminazione territoriale, neologismo orwelliano nato per non ammettere l’esistenza di un razzismo “interno” nello stato italiano, è l’altro punto su cui il mondo del calcio farebbe bene ad interrogarsi. All’estero, in Belgio, qualche anno fa il portiere del Lierse Kawashima fu oggetto di alcuni cori riferiti alla tragedia di Fukushima. L’arbitro sospese il match. Di per se fare riferimento ad un disastro in Giappone apparentemente non è come insultare le caratteristiche somatiche dei giapponesi. Eppure il direttore di gara riuscì intelligentemente a trovare il nesso tra la tragedia e l’identità del popolo giapponese, ritenendo (a ragione) quel “Fukushima” insultante per il portiere del Liege. E allora “colerosi”? Ed invocare il Vesuvio? In un calcio italiano che, dopo la vicenda di Koulibaly, sarà costretto a fare i conti con il razzismo negli stadi, la ridiscussione del concetto di “discriminazione territoriale” dovrebbe (ma non ci contiamo molto) essere passo successivo.
Lungi dal volere il “modello teatro” tanto caro alle pay-tv e dall’ammazzare l’anima popolare del calcio, la lotta al razzismo e alla discriminazioni deve necessariamente entrare nelle agende dei prossimi consigli federali (magari sottraendo un po’ di tempo al parlare di sponsor e diritti televisivi). Perchè, parliamoci chiaramente, il gesto di Irrati ha mostrato come l’Italia sia ancora impreparata ad affrontare il problema razzismo. E anzi, qualora sia stato affrontato, si sono creati più problemi che soluzioni. La demonizzazione delle curve (quando poi certi cori si cantano anche in tribuna), le pene irrisorie, i neologismi e le distinzioni tra i “razzismi” sono tutte (non)soluzioni all’italiana. Come mettere un cerotto su di una gamba rotta. Mentre si aspetta che un arbitro decida che quello che sta sentendo non è più tollerabile. Mentre un giocatore, in questo caso Koulibaly ma poteva essere chiunque, invoca il diritto di giocare senza dover essere insultato in modo razzista. Mentre dopo il “piccolo passo” di un arbitro siamo in attesa che il calcio italiano decida finalmente di fare il “grande passo” nei confronti del razzismo negli stadi.
Giancarlo Di Stadio
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