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Football & Marketing – In un calcio sempre più globale il Napoli è indietro su molti aspetti

Anche in Italia si da sempre maggiore valore a concetti come espansione del brand e conquista di nuovi mercati, ma il Napoli sembra perdere diverse occasioni

Premettiamo una cosa: chi vi scrive è tendenzialmente contro il giocare Supercoppe in Cina, in Arabia o in America. Lo è perché così facendo si priva il calcio della sua base, i tifosi che possono assistere al match, trasformando di fatto le squadre da rappresentative di città, quartieri, tifosi a semplici marchi commerciali il cui fine ultimo, cosa tanto cara nel mondo attuale, è l’aumento del fatturato.

Accanto alle espressioni romantiche del calcio che fu, alle “lacrimucce” che ci scendono pensando ai San Paolo, San Siro, Olimpico strapieni negli anni ’80 o davanti alle ultime oasi di tifo genuino, come ad esempio la Kop a Liverpool o il Muro Giallo, la celebre Sudtribune del Westfallenstadion di Dortumund, è però innegabile che il calcio va ormai verso una direzione globale, con mercati sempre più ampi e con esigenze di esportare un prodotto (il calcio stesso) in paesi ed economie che prima erano considerate di nicchia.

In verità non si tratta solo di calcio, è il mondo nel suo complesso che prende questa direzione. L’Italia, sia a livello economico che geopolitico, è ormai un paese di secondo forse addirittura terzo piano. Il prepotente ritorno della Russia, la forza economica della Cina e l’emergere dei paesi arabi fanno sì che si aprano nuovi e ricchi mercati in cui la cara vecchia Europa può (e secondo alcuni deve) investire.

E il calcio, in quanto pregiato e richiestissimo prodotto di intrattenimento made in Europe, non può di certo esimersi da questa logica. Già da diversi anni club di primissima fascia come Real Madrid, Barcellona, Manchester United e Bayern Monaco hanno guardato sempre con più interesse a questi nuovi mercati. Tanti giocatori hanno deciso di spendere il crepuscolo della loro carriera negli Emirati o in Cina, mentre contemporaneamente imprenditori, magnati e (purtroppo) anche gente dalla dubbia ricchezza hanno cominciato a fare incetta di azioni e partecipazioni nei maggiori club europei.

L’Inter diventa indonesiana, il Milan stringe accordi con la controversa figura di Mr.Bee. La Roma da anni è ‘mmericana e da un po’ di tempo lo è anche il Bologna. Nel frattempo la Juve approfitta della Supercoppa a Pechino per curare i suoi profili sui social network cinesi e aprire diversi store on-line rivolti al mercato asiatico, facendo ben fruttare il ricchissimo accordo recentemente firmato con Adidas fino al 2021.

Già, la Supercoppa, la stessa che il Napoli, per ben due volte, ha giocato all’estero. La prima volta nella tragicomica trasferta di Pechino e la seconda nella vittoriosa uscita a Doha. Ma domandiamoci una cosa: la Juve sfrutta la Superocoppa per espandere il suo marchio. Il Napoli cosa fa, o meglio cosa ha fatto?

Praticamente niente dal punto di vista del marketing e del merchandising. Nel periodo pre-Pechino si ricordano solamente i continui dietrofront di De Laurentiis. Prima tra i più accesi fautori della trasferta cinese, tanto che, parole sue, il Napoli avrebbe dovuto anche fermarsi per una tournèe in loco. Poi, di fronte alle (giustissime) proteste dei tifosi, ci fu il (inutile e forse un po’ populista) dietrofront del patron azzurro. Risultato? A parte il ricco bonus partecipazione e la polemica sconfitta contro la Juve, il Napoli non fece praticamente nulla a livello di valorizzazione del marchio. Lo stesso dicasi per la trasferta di Doha. Un successo dal punto di vista sportivo, ma un sostanziale fallimento (o sarebbe meglio dire una sostanziale inattività) dal punto di vista del marchio. Bonus di partecipazione in tasca, tifosi ugualmente inviperiti, ma per gli arabi il Napoli ha continuato ad essere solo ed esclusivamente “la squadra dove giocò Maradona”.

Il punto è semplice: non siamo d’accordo con questa eccessiva corsa ai nuovi mercati, soprattutto quando ciò penalizza l’unica ragione che legittima l’esistenza di dei club di calcio: i propri tifosi. Ma, visto che a Pechino e a Doha comunque alla fine bisogna andarci, tanto vale cercare di fare qualcosa di utile per la squadra nel suo complesso. Che poi, indirettamente, un’attenta espansione del marchio, o meglio del brand, potrebbe portare anche ad aspetti positivi per i tifosi, come ad esempio l’ingressi di nuovi capitali, l’aumento di fatturato e l’acquisto di nuovi calciatori.

Alcune scelte possono apparire legittime e giuste. Ad esempio quella del Napoli di Sarri di fare una preparazione “classica” ed evitare inutili (ma in ogni caso ricchi) tornei estivi come l’International Champions Cup è perfettamente condivisibile. Molto più discutibili le politiche sui diritti d’immagine (che hanno fatto naufragare e faranno naufragare tanti acquisti) o quella sugli sponsor tecnici, dove per ottenere controllo sul prodotto e un tot di ricavi nell’immediato, garantiti da uno sponsor nazionale e di secondo piano, si sacrificano le possibilità di espansione del marchio e i maggiori ricavi a lungo termine che invece ti garantirebbero sponsor tecnici più internazionali.

Insomma, per non tirarla per le lunghe, alla luce di uno spostamento del calcio, sempre meno sport e sempre più prodotto di intrattenimento, bisogna chiedersi cosa voglia fare il Napoli. Il 14° posto nel ranking Uefa e il seggio ottenuto all’Eca fanno entrare il club azzurro nel salotto buono del calcio europeo (quello ripetiamo più appetibile a livello mondiale). Tutto ciò senza dimenticare l’indubbio valore aggiunto di aver avuto tra le tue fila un certo Maradona, il più forte e il più simbolico giocatore della storia, e di essere l’unica metropoli europea ad esprimere una sola squadra (una sorta di “monopolio” del tifo cittadino) rappresentante tutta la città.

Ma se a tutto ciò non si da seguito a piani di investimento sulle strutture (partendo dalla realizzazione di uno stadio all’altezza) e sulla valorizzazione del brand, il Napoli è destinato a restare in una, passatemi il termine, medio-alta mediocrità. Siamo di fronte ad un terreno fertile dalle grandi potenzialità. Ora sta alla proprietà decidere cosa fare: investire su questo terreno, a rischio di perdere anche qualcosa nei primi tempi, o continuare a trattarlo alla stregua di un latifondo, accontentandosi ogni anno, come i mezzadri toscani del ‘700, sempre del solito e “garantito” mezzo raccolto. E chi si è visto si è visto…

Servizio a cura di Giancarlo Di Stadio

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