C’erano una volta i Sibilia, gli Anconetani, i Rozzi e in tempi più recenti i Gaucci. Presidenti vulcanici, magari un po’ ignoranti, che capivano poco di fatturati, plusvalenze, dividendi, ma che riuscivano ad identificarsi a pieno con la squadra. Lo stereotipo del presidente di provincia, tanto caro alla filmografia degli anni ’70 e ’80: il ricco del paese, colui che prende la squadra della sua città e la porta in alto.
Poi arrivò l’era dei business president, in giacca e cravatta, con un occhio più al bilancio che al campo. Ed anche gli appassionati cominciarono a scoprire parole quali “bilancio”, “plusvalenza”, “fair play finanziario”. Stiamo parlando di tutta quella nuova leva di proprietari, da Andrea Agnelli a De Laurentiis, per finire con le ultime new entry (da una parta all’altra del mondo) Thohir e Pallotta. Più che presidenti sono contabili, ragionieri, amministratori delegati.
Infine venne lui, l’elemento di rottura, quello che non ti aspetti. L’uomo capace di colorare un ingrigito (come le giacche e le cravatte) panorama calcistico italiano. Massimo Ferrero, “er Viperetta” per gli amici. Imprenditore cinematografico romano. Come De Laurentiis. Anche se con De Laurentiis, oltre al mestiere e alla città natale, condivide solo la capigliatura bianca.
Quest’estate prende la Sampdoria, si dice, per zero euro dalla indebitata famiglia Garrone. C’è però un retroscena. Ferrero in cambio si impegna a ricapitalizzare la società per renderla competitiva e a coprire almeno la metà dei 30 milioni di debiti che pesano sulle finanze della Samp. Mossa niente male per uno che, a parte qualche geniale mossa nel campo degli affari (come rilevare le sale romane del fallito collega Cecchi Gori), ha collezionato diversi flop imprenditoriali, uno su tutti il fallimento della compagnia charter Livingston Energy Flight.
Ma a noi in questa sede poco interessa dei suoi fallimenti imprenditoriali, anche perché se dovessimo fare le pulci a tutti i presidenti di A ne vedremmo delle belle. A noi interesse il Ferrero personaggio, quello che ha ispirato anche un mago delle imitazioni come Maurizio Crozza. A noi interesse il suo essere poco “corretto”, il suo essere di rottura in un mondo che, purtroppo o per fortuna, si stava abituando all’imbalsamazione e alla rigidità in giacca e cravatta.
E attraverso Ferrero, le sue, diciamo inconsce, dichiarazioni, crollano anche la falsità e l’ipocrisia di un mondo, il calcio italiano, che cerca di assomigliare sempre più all’alta finanza, pur non essendoci né i requisiti né, soprattutto, il desiderio da parte degli utenti finali (i tifosi) di vedere questa trasformazione. In tutto ciò Ferrero rompe gli schemi, getta le carte sul tavolo. L’imprevedibilità, a volte divertente, altre volte scortese, che riesce a strappare ad un tifoso il sorriso. La battutina spiritosa, non sappiamo quanto voluta, che consente al tifosi di cambiare registro dopo aver sentito quattordici interviste di presidenti che parlano più di economia che di calcio.
Ma stavamo parlando di Ferrero che smaschera involontariamente l’ipocrisia. Già. Perché le sue dichiarazioni “scorrette”, al limite del “volgare”, certe volte costringono il mondo del calcio italiano a gettare la maschera, a guardarsi in allo specchio e, soprattutto, a farsi un esame di coscienza. E mostrano tutti i limiti di quel vuoto pollitically correct che da sempre, nel calcio e non solo, fa da intonaco al fatiscente palazzo che c’è dietro. Perché quando il mondo del calcio si indigna per un “filippino” detto più per scherzo che per cattiveria, e si tappa le orecchie di fronte alle dichiarazioni di riabilitazione (fin quasi alla santificazione) di personaggi e momenti che tanto hanno fatto molto male al calcio italiano, capisci che forse, in fondo, quello pazzo, quello sbagliato, non è poi “er viperetta”.
Servizio a cura di Giancarlo Di Stadio
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