Stadio di proprietà! Sembra essere questa la parola magica, la panacea di tutti i mali del calcio italiano. Un calcio che, come dimostrano le recenti performance dei club e della Nazionale, sembra vivere una perenne fase d’involuzione. Da campionato più bello del mondo, come era considerato negli anni ’80 e ’90, a torneo di seconda fascia, lontano anni luce, al netto di exploit estemporanei, dal terzetto di top campionati europei rappresentato da Liga, Premier e Bundesliga.
I problemi sono di natura tecnica, con i campioni italiani che sono sempre più rari, e soprattutto economica, con i top players stranieri che preferiscono i big money d’oltralpe ai relativamente miseri ingaggi italiani. Le soluzioni? Essenzialmente due: crescere i campioni in casa o aumentare i ricavi. E se sul primo punto si potrebbero scrivere enciclopedie sulle motivazioni per cui la mentalità (e gli interessi) del calcio italiano non consentono di puntare abbastanza sui giovani dei vivai, sul secondo punto l’opinione comune è abbastanza concorde: servono gli stadi di proprietà!
Già, facile a dirsi, molto più complicato a farsi. In Italia al momento solo tre società dispongono di un impianto di proprietà: Juventus, Sassuolo e Udinese. Le altre, con Roma e Milan in testa, ma anche Napoli, Inter e Fiorentina che ci pensano, sono bloccate da problemi economici e burocratici. Nel paese che con Italia ’90 ha creato “cattedrali nel deserto” (vedi San Nicola di Bari) o ha speculato su impianti all’epoca efficienti per arricchire gli “amici degli amici” (vedi San Paolo di Napoli) la costruzione di uno stadio di proprietà diventa una vera e propria odissea.
Non a caso lo Juventus Stadium è stato accompagnato da polemiche sulla poco trasparente concessione dei terreni fatta alla famiglia Agnelli, mentre Sassuolo e Udinese possono disporre di uno stadio di proprietà soprattutto per decisa volontà dei rispettivi proprietari, con Squinzi, patron del Sassuolo, che ha comprato (e rinominato con il nome della sua azienda, la Mapei) quello che era lo stadio della Reggiana.
Ma a questo punto la domanda diventa lecita: quanto incide sul fatturato uno stadio di proprietà? Qualche dato torna utile. Spolpata per bene la carcassa dei diritti tv e con un merchandising che, complici fatto economici e culturali, in Italia stenta a decollare, l’unica fonte di ricavi espandibile diventa proprio lo stadio. Il Napoli, ad esempio, nel 2014/15 ha ricavato dallo stadio solo il 12,7% del fatturato complessivo (a fronte del quasi 70% delle entrate derivate dai diritti tv). Non va meglio nemmeno alle milanesi che si attestano attorno al 10% dei ricavi da stadio. La Juve dal canto suo prende dal botteghino quasi il 15% ma con un’importante differenza: Il 15% è da rapportare ad un fatturato di 280 milioni (contro ad esempio i 160 del Napoli). A pesare molto è la disponibilità totale dell’impianto che, seppur più piccolo rispetto al San Paolo o a San Siro, può contare su una media spettatori alta e costante e soprattutto su decine di attività collaterali (come il Juventus Museum) difficili da realizzare in impianti non di proprietà.
Se poi ci spostiamo all’estero il confronto diventa ancora più impietoso. Bayern Monaco e Borussia Dortmund hanno ricavi da stadio che incidono mediamente per il 20-25% sul fatturato. Ma anche l’Arsenal e lo United riescono a prendere più soldi dall’accoppiata stadio-merchandising piuttosto che dai diritti tv (che in Premier sono maggiori rispetto agli altri campionati europei). Per non parlare di Real e Barcellona nella Liga, ma anche dell’Atletico. E non è un caso che il trend nei campionati stranieri degli ultimi anni sia stato quello della costruzione di nuovi impianti. Il nuovo San Mamès di Bilbao, l’Emirates di Londra, l’Etihad di Manchester. E prossimamente anche l’Atletico Madrid e il West Ham avranno uno stadio nuovo di proprietà.
Insomma uno scenario tutt’altro che roseo per i club italiani, con un gap nei confronti degli altri campionati che è destinato ad ampliarsi, a meno di repentini cambi di rotta. Da un lato la burocrazia asfissiante, dall’altro la storica reticenza degli imprenditori nostrani a investire con “rischio di impresa”. Così, mentre l’Europa viaggia verso un calcio “del terzo millennio”, l’Italia resta ferma al palo, con i presidenti che aspettano o le “leggi amiche” per minimizzare gli investimenti e massimizzare i profitti, o sono bloccati da divieti e regolamenti burocratici. E mentre si perde tempo il pallone continua a correre, gli altri lo inseguono e noi fermi, aspettando un giorno il “lancio lungo”.
Giancarlo Di Stadio
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