Il calcio ha sempre vissuto su di una strana contraddizione. Da un lato, specialmente negli ultimi tempi, è diventato uno dei business più redditizi a livello mondiale, con sponsor, ingaggi milionari, pay-tv dedicate e tanto altro. Dall’altro ha sempre mantenuto una connotazione fortemente popolare, restando, nonostante tutto, uno sport per le masse. Una contraddizione che negli ultimi tempi si è accentuata, ma che anche in passato era abbastanza netta e visibile. Fin dagli albori del professionismo, più o meno attorno agli anni ’20 e ’30 governi e imprese videro nel calcio un forte strumento sia di propaganda che di visibilità. Dal secondo dopoguerra, pur non scomparendo del tutto il primo fattore, quello della propaganda, fu il secondo, quello della visibilità, ad avere un’impennata netta.
Wolfsburg è l’esempio di come l’industria e l’imprenditoria abbiano pesantemente influenzato il calcio, soprattutto nordeuropeo. Partiamo dalla città di Wolfsburg. Fino al 1938 neanche esisteva. Fu il governo nazista a progettare e creare letteralmente dal nulla una cittadina per ospitare gli operai della nascente casa automobilistica della Wolkswagen (letteralmente “auto del popolo”). In primo momento la città si chiamò Stadt des KdF-Wagens (“Città delle automobili KdF”), successivamente Wolfsburg (“borgo dei lupi”), alcuni dicono per via di un vecchio castello medievale della zona, chiamato “castello del Lupo”, altri addirittura che il nome fosse un indiretto omaggio ad Hitler.
Da allora in poi le vicende della cittadina furono legate alla vicina fabbrica di automobili. Ed anche la squadra, che durante i primi anni, altalenò successi regionali a clamorosi tonfi, salì alla ribalta del calcio tedesco solo dopo la sponsorizzazione da parte della casa automobilistica. Una scalata culminata con il titolo del 2008/2009, dopo che il club aveva per la prima volta centrato la promozione in Bundesliga nel 1992.
La Germania comunque non è nuova a questi binomi calcio-industria. E d’altronde un paese con un’economia solida e con un’industria internazionalmente valida come la Germania non poteva che orientare lo sviluppo del calcio verso questa direzione. Addirittura è proprio in Germania che si registra il primo caso di sponsorizzazione, con l’azienda di liquori Jagermeister che, negli anni ’70, entrò prepotentemente nella proprietà dell’Entracht Braunschweig, portando addirittura ad un discusso cambio di logo societario al fine renderlo quanto più simile possibile a quello dell’azienda ed in tal modo aggirare le regole della federcalcio tedesca. Celebre anche il caso del Bayer Leverkusen, legato a doppio filo alle vicende della nota casa farmaceutica, la Bayer, da cui deriva anche il nome del club. E non è un caso che giocatori del Bayer sono soprannominati “le aspirine” dal noto prodotto della casa farmaceutica o ancora Werkself (“squadra della fabbrica”).
Wolfsburg e Bayer sono forse tra i casi più noti di binomio calcio-industria, ma non sono i soli. Anche fuori dalla Germania possiamo assistere ad esempi simili. In Olanda ad esempio è famoso il caso del Psv, una sorta di costola della celebre azienda di elettronica Philips. Infatti, a voler esser pignoli, la sigla PSV sta per Philips Sport Vereningin (“Unione Sportiva Philips). In Russia invece possiamo annoverare lo Zenit San Pietroburgo. La compagine russa è infatti, dal 2005, controllata dal colosso dell’energia Gazprom grazie al quale è riuscita in pochi anni a passare dalla subalternità alle squadre di Mosca fino ai vertici del calcio russo e europeo.
C’è poi il caso della Francia. Qui già nel 1928 Jean-Pierre Peugeot, presidente dell’omonima casa automobilistica, fondò il Sochaux con l’obiettivo di farlo diventare uno dei più forti club di Francia. Intento ripreso molti anni dopo dall’Evian, fondato nel 2003 e legato a doppio filo alla Danone. Addirittura Les Roses sono il frutto di varie fusioni e trasferimenti avvenuti dal 2000 al 2007 che l’hanno portata da piccolo club delle leghe regionali alpine ad outsider in Ligue 1, grazie ai soldi del colosso alimentare.
E in Italia? L’Italia di certo non sta a guardare, anzi. Ci sono e ci sono stati svariati casi come quelli del Wolfsburg e del Bayer. Per limitarci ai più celebri possiamo citarne tre. Il primo, e forse più iconico, è il caso del Lanerossi Vicenza, celebre squadra che, tra gli anni ’60 e ’70, costruì un mito difficile da cancellare. La celebre R rossa, simbolo dell’azienda Lanerossi, è diventata ormai parte della storia del calcio italiano, un simbolo altamente iconico, ricordato da molti quasi con nostalgia. Altro esempio, ugualmente celebre, è quello del binomio Juve-Fiat. Il club torinese infatti deve la sua fortuna ai capitali della famiglia Agnelli, ed anche il suo ampio seguito ha origine per gran parte dal tifo di tutti gli operai (soprattutto meridionali) che negli anni ’60 e ’70 affollavano gli stabilimenti Fiat in Italia. E non dimentichiamoci infine del Parma, che deve il suo successo alla Parmalat di Tanzi. L’ascesa e il declino sono coincisi con le poco limpide manovre finanziarie del suo patron.
La lista in realtà sarebbe ancora lunga. Si potrebbero citare anche i rapporti tra Audi e Bayern Monaco, quelli che invece legano la Fininvest e il Milan o quelli che fino a poco tempo fa legavano la Saras dei Moratti all’Inter. E ancora il Sassuolo di Squinzi e della Mapei o il Montpellier di Nicollin e della sua azienda di riciclo dei rifiuti. Insomma il calcio è business, purtroppo o per fortuna. I soldi ci sono, girano e possono fruttare. In un ambiente così è naturale che anche le aziende cerchino profitti e soprattutto visibilità e pubblicità. L’unica cosa è che in ogni caso, Volkswagen o Fiat, in campo andranno sempre undici giocatori e che l’obiettivo per i tifosi, almeno per 90’ minuti, non sarà un dividendo maggiore o un licenziamento più facile, ma solo e solamente segnare un gol in più dell’avversario.
Servizio a cura di Giancarlo Di Stadio
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