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Dal drone di Belgrado alla mano de Dios. Quando il calcio diventa identità e politica. Ma è sempre un male?

La popolarità del calcio fa si che non sia scindibile dalla società e dalla politica. Certe volte ciò sfocia nell'estremismo, altre volte nella difesa dell'identità

Il calcio è lo sport imprevedibile per eccellenza. Una giocata, un tocco, e cambia una partita. Il calcio è lo sport popolare per eccellenza, lo sport identitario, quello in cui i popoli si identificano più facilmente. E gli stessi calciatori, sebbene sempre più pagati, sembrano essere preservati da quell’imborghesimento, tanto da essere sempre, in un certo qual modo legati alla gente, tanto da essere considerati sempre eroi del popolo.

Cosa c’entra l’imprevedibilità con l’identità. Apparentemente niente, almeno fino a quanto un drone (si, avete capito bene, un drone) non interrompe una partita di calcio. Qualcosa di non preventivato, qualcosa dalle conseguenze, passatemi il termine, disastrose. Già, perché quello non è un drone qualsiasi, e quella che si sta giocando in campo non è una gara qualsiasi.

È Serbia-Albania, e quel drone porta una bandiera particolare, una bandiera destinata a scatenare mille polemiche. I serbi cercano di strapparla, gli albanesi di preservarla. E scoppia la rissa, con tanto di sedie che volano e ultrà serbi (tra cui il “caro” Ivan Bogdanov di cui tutti sentivamo “la mancanza”) lesti ad invadere il campo. Ma perché tanto clamore per quella bandiera?

Innanzitutto è d’obbligo un piccolo excursus storico. Per chi fosse troppo giovane e troppo pigro per andare su Wikipedia, basti sapere che tra albanesi e serbi (o meglio tra musulmani e serbo-ortodossi) non scorre buon sangue. Un decennio di guerre, diverse pulizie etniche da ambo le parti, territori contesi, il tutto in quella polveriera europea conosciuta come i Balcani.

La bandiera poi richiama un tema molto sentito da entrambe le parti, quello della Grande Albania. Sul vessillo fatto volare sullo stadio di Belgrado c’era infatti un richiamo alla Grande Albania, quell’entità statale teorizzata dai padri fondatori dello stato albanese. In pratica il sogno di un grande stato musulmano sulle sponde dell’Adriatico che comprende tutti i territori dell’Albania etnica, insomma tutti i territori abitati a maggioranza da albanesi.

Il problema è che l’Albania etnica non corrisponde all’attuale stato albanese, ma ricade anche in altri territori. Parte della Macedonia, il Montenegro meridionale, le città (attualmente greche) di Janina e Corfù e, soprattutto il Kossovo. Già, il Kossovo. Lo stesso Kossovo rivendicato dai Serbi come parte integrante della loro nazione, il quale al momento vive un’indipendenza travagliata, più per volontà straniera che per desiderio della popolazione (che vorrebbe unirsi all’Albania o tornare con la Serbia).

Un cocktail esplosivo che trova facile sfogo nello sport più popolare che ci sia: il calcio. Si perché è inutile girarci intorno, è inutile pretendere dal calcio una “verginità” politica. È inutile! Il calcio è politica. O meglio la politica è dentro il calcio. Dispiace dirlo, ma è così. E se la politica è dentro il calcio va da se che anche espressioni più estreme della politica finiscono per ricadere nel rettangolo di gioco.

Si badi bene che però questa commistione non necessariamente deve essere vista come un qualcosa di totalmente negativo. Certo, episodi come quello di Belgrado, sono la deriva estrema del fenomeno. Un fenomeno che non è affatto nuovo. Le stesse Guerre Jugoslave ebbero come prologo gli scontri tra gruppi ultrà della Dinamo Zagabria e della Stella Rossa di Belgrado. E molti capi ultrà da un giorno all’altro si tolsero la sciarpa per imbracciare il fucile (basti pensare ad Arkan, divenuto poi tristemente celebre come criminale di guerra).

Ora, per tutti i ben pensanti pronti a criticare a spada tratta le vicende serbe, è bene far notare che anche nell’Europa più “occidentale” la commistione tra calcio e politica non è un fatto inusuale, specialmente per quel che riguarda le frange più estreme. Celebre l’Italia in divisa nera al Mondiale del ’38, esperimento fortunatamente breve, chiaro indice della volontà del regime fascista di “controllare” il calcio. O, sempre in epoca fascista, l’epopea della Fiumana, simbolo dell’Italia irredenta, sciolta, sempre per volontà politica, dalla Jugoslavia di Tito. E come dimenticare il fiorire dei Cska e delle Dinamo, squadre di esercito e polizia nell’Europa comunista. E il grande Madrid, squadra preferita, assieme all’Atletico, dai gerarchi franchisti.

Storie del passato? Mica tanto. Basti pensare alla politicizzazione delle nostre curve. Dall’estrema destra, preminente negli ambienti romani e settentrionali, fino al comunismo più sfegatato, messo in mostra negli stadi tosco-emiliani. E non bisogna dimenticarsi del “razzismo etnico” (contro stranieri e meridionali) tanto in voga negli stadi del Nord Italia, corrispettivo sportivo di un pensiero politico che ha fatto la fortuna di diversi politici nazionali.

Insomma tutto marcio? Non proprio. Il calcio, come tutti i fenomeni umani, non è impermeabile alla società e alle sue idee. Ma le idee di per se sono neutre. È la gente a conferirle un significato. Così la celebre mano de Dios, il celebre gol di mano Maradona all’Inghilterra, non significò solo la semifinale. No, significò molto di più. Per gli argentini era la vendetta per le Falkland (o Malvinas), ma ben presto divenne quasi un simbolo di riscatto per tutti i popoli colonizzati che vedevano in quel gol il simbolo metaforico del riscatto contro i “colonialisti” inglesi.

E sarebbe impensabile anche criticare il celebre rifiuto di Sindelar di giocare nella nazionale della Germania Nazista. Il celebre “no” ad Hitler che gli costerà la vita. Anch’esso un gesto “politico”, ma di certo di tutt’altro significato rispetto a quanto si vede abitualmente.

Da non sottovalutare il rapporto tra identità, calcio e tifo. Come non citare ciò che lega Celtic e Rangers alla società scozzese. Un rapporto che ha mille sfumature.  L’eterna lotta tra indipendentismo cattolico e lealismo protestante ha trovato nell’Old Firm l’ideale veicolo d’amplificazione. Una lotta che non coinvolge solo la Scozia, ma sconfina anche in Irlanda e Galles, dove il Celtic, in quanto simbolo di indipendentismo, è tra i club più tifati.

Identità, popolo e calcio. Un mix che trova (e sta trovando) terreno fertile soprattutto in quei paesi con un forte regionalismo. Le bandiera basche e catalane nei match di Athletic e Barcellona sono ormai la norma. Ma anche la Serie A non è impermeabile. Dal Cagliari e le celebri Teste di Moro, fino ai Triscele e stemmi borbonici che compaiono sempre più a Catania, Palermo e Napoli, e il club altoatesino del SudTirol, rigorosamente scritto in tedesco per rimarcare l’identità teutonica dell’Alto Adige. E poi il celebre “Mia san mia” del Bayer Monaco o vari esempi identitari in Corsica e Bretagna.

Insomma, va da se che, per quanto se ne dica, e per quanto si speri, il calcio va a braccetto con la politica e l’identità. Sarà per il suo saper coinvolgere le masse, per il fatto di essere lo sport del popolo. Il calcio è tra i mezzi più potenti (forse più di televisione e giornali) per veicolare un’idea. Sta però al singolo tifoso far si che questa idea, come purtroppo spesso accade in politica, non sfoci in qualsivoglia estremismo.

Servizio a cura di Giancarlo Di Stadio

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