Gavetta o non gavetta? O meglio, è giusto premiare che si è costruito pian piano, partendo dal basso, o è più utile scommettere fin da subito sul “talento” di ex calciatori, sperando che riescano a replicare quanto fatto in campo anche su di una panchina di calcio. Diciamo che questo è un discorso ampio, che relegarlo all’ambito calcistico è riduttivo. Nella vita reale tanti, troppi giovani e meno giovani, con lauree, master ed esperienza, si vedono scavalcare dal raccomandato di turno, catapultato dal nulla alla stelle in men che non si dica, laddove un comune mortale, per raggiungere tale posizione (se mai la raggiungerà), ha bisogno di molto tempo.
Il calcio non sfugge a questa logica. I tempi di allenatori nati, cresciuti e formatisi nei polverosi campi delle categorie inferiori sono finiti (se mai ci fossero veramente stati), ed una nuova generazione più “manageriale” prende progressivamente il loro posto. E così, accanto a tecnici che, come Sarri o Sannino, hanno fatto tutta la trafila, si trovano in Serie A gente che passa dallo zero a mille in pochi giorni, che qualche mese prima calcava i campi da calcio e, magicamente, qualche mese dopo già è allenatore in prima squadra.
Certo, il mondo del calcio è pieno di vie di mezzo. Tecnici come Allegri, Di Francesco o Pioli, pur avendo giocato a buoni livelli, hanno certamente iniziato nelle serie minori, conquistando, spesso e volentieri sul campo, la possibilità di allenare in Serie A. C’è poi però tutta quella nuova generazione di tecnici quasi all’inglese, che preferiscono la giacca alla tutta. Tecnici presi dalle Primavere, se non direttamente dal campo, catapultati in top club con uno schiocco di dita.
Certe volte la mossa si rivela azzeccata. Montella arrivò alla prima squadra dopo pochi anni nelle giovanili della Roma, e comunque, tra Catania e Firenze, ha dimostrato di saperci fare. Ancora meglio è andata con Mancini. Subito catapultato nella nobiltà della Serie A, alla Lazio e all’Inter ha saputo vincere, prima di affermarsi anche in Inghilterra. Discorso più sfumato per Mihajlovic, lui la gavetta (se così la possiamo definire) l’ha comunque fatta da vice di Mancini.
Sinisa a parte, vero esempio di gavetta sono i tre tecnici stranieri della nostra Serie A. Di Zeman è inutile parlare. Da Licata a Roma, un’ascesa incredibile tra gli anni ’80 e ’90, prima del declino e della nuova ripresa tra Pescara e Cagliari. Dicasi lo stesso di Benitez e Garcia. Il primo inizia all’Extremadura, il secondo al Corbeil-Essonnes, non certo Real o Psg.
Altre volte invece le scommesse sui “giovani” si rivelano dei flop. Ricordate Ferrara alla Juve? Stramaccioni all’Inter? Allenatori che di punto in bianco si ritrovano in un mondo troppo grande per loro, senza il dovuto bagaglio tecnico e la dovuta esperienza. Certo Ferrara successivamente ha allenato anche a buon livello l’Under 21 e Stramaccioni bene sta facendo ad Udine, ma lo scotto della prima esperienza negativa è qualcosa che pesa, e non poco, sul loro curriculum, condannati ad essere “quello che ha fallito alla Juve” e “quello che ha fallito all’Inter”.
Infine c’è il caso Milan, con Inzaghi. Dalle parti rossonere, dopo il mezzo fallimento di Seedorf, un altro che è passato troppo velocemente dal campo alla panchina, ci riprovano con Inzaghi. Certo, l’esperienza dell’ex trequartista olandese non è stata della migliori, ma la fretta con cui è stata scaricato per far posto al nuovo, presunto, salvatore di Milanello, denota più un voler provare a sfidare il caso con un altro “golden boy” che seria programmazione.
Insomma, per come la si veda, il problema dell’esperienza sulle panchine della Serie A è un qualcosa dalle mille sfumature. Sul fatto se sia giusto che ex calciatori di buon livello scavalchino mister che da anni dimostrano con fatti e risultati il loro valore è un qualcosa di moralmente sbagliato, ma rientra appieno in un sistema non solo calcistico dove il nome (o meglio il cognome) e le amicizie contano più dei risultati.
C’è però un dato confortante. Nel calcio, a differenza di altre posizioni lavorative, l’unico giudice insindacabile è il campo. E un allenatore, al momento di fare i conti con i risultati, non può far altro che renderne atto. Il bel cognome, di fronte ad una retrocessione o ad un mancato approdo in Europa, può ben poco, così come può ben poco l’esperienza e la gavetta. È la dittatura del risultato, la democratica dittatura del risultato.
Servizio a cura di Giancarlo Di Stadio
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