Da qualche tempo sembriamo condizionati da due nuovi vizi capitali. Il primo è l’emotività: giudichiamo quel che accade più con la pancia che con la testa; con poca serenità e a volte con qualche isterismo. Il secondo vizio è l’autocensura.
Per il timore di passare per politicamente scorretti, o peggio per reazionari, rinunciamo a dire quel che pensiamo (e che magari appare come un’evidente verità).
Un esempio. Il 3 maggio scorso, a Roma, prima della finale di coppa Italia Napoli-Fiorentina un tifoso napoletano – Ciro Esposito, di 29 anni – viene ucciso da un tifoso della Roma, Daniele De Santis, uno che bazzica gli ambienti dell’estrema destra. L’Italia della gente normale si chiede come mai, se la partita è Napoli-Fiorentina, ci siano scontri fra tifosi napoletani e romanisti: ma è una domanda oziosa perché il mondo degli ultrà non appartiene alla gente normale. Comunque: l’impatto mediatico è enorme, anche perché milioni di italiani assistono attoniti alla miserabile commedia che va in scena all’Olimpico, dove calciatori, allenatori, dirigenti sportivi e ahimè anche forze dell’ordine sono tenuti sotto scacco da alcuni avanzi di galera che dalla curva dettano i tempi su quando – e se – cominciare a giocare. In ogni caso la commozione per la morte del giovane tifoso del Napoli è grande, come è giusto e comprensibile che sia.
Meno giusta e comprensibile è però l’immediata santificazione. A Scampia – un posto dove non tutti hanno le carte in regola per chiedere giustizia – vengono celebrati i funerali al grido appunto di «giustizia!», e con grande esibizione di cartelli «Ciao eroe», rivisti poi più volte anche negli stadi. E questa è l’emotività: reagire d’istinto senza aspettare di sapere come sono andate davvero le cose.
Infatti, l’altro ieri una perizia del Racis dei carabinieri si conclude affermando che De Santis, l’uccisore di Esposito, «fu vittima di un tentato omicidio» e sparò solo dopo essere stato già ferito, forse a coltellate. De Santis resta quello che è, tutt’altro che un gentleman, ma se così fossero andate le cose, si potrebbe perfino pensare a una legittima difesa. Stiamo dicendo che Ciro Esposito se l’è meritata? Ovvio che no. Ma possiamo dire quel che tutti sanno, e cioè che erano in corso scontri fra tifosi? Magari Esposito in quegli scontri non c’entrava nulla ed era lì per caso: ma allora possiamo dire che è una vittima, ma gli «eroi» sono un’altra cosa?
Altro esempio: la morte del diciassettenne Davide Bifolco di Napoli. Anche qui: come si fa a non avere pietà di un povero ragazzo che muore a 17 anni? Però un conto è la pietà, un altro è dare per scontata la versione dei fatti gabellata per vera dagli amici di Davide, e cioè che un carabiniere killer gli ha sparato alle spalle: così, per il gusto di accopparlo. Versione che ha dato il pretesto, a molti abitanti del quartiere, di assaltare e bruciare per giorni e giorni le auto di polizia e carabinieri. E versione del tutto falsa, visto che l’altro ieri sono arrivati i risultati dell’autopsia e anche i consulenti della famiglia Bifolco dicono che il colpo è stato esploso di fronte, esattamente come aveva detto il carabiniere.
Qui, oltre che l’emotività, entra in gioco il timore di passare per reazionari. Timore che impedisce di dire quello che tutti pensano, e cioè che se a Cuneo vai in tre su uno scooter ti fermano e ti sequestrano il motorino. A Napoli invece non solo si può andare in tre, ma ci si può andare senza casco; e se non ti fermi a un posto di blocco i carabinieri – che sono lì perché stanno cercando un latitante, non per sport – devono dirti avanti prego, passate pure e scusate il disturbo. È normale. Così come è normale assistere impotenti alla rivolta di piazza dei giorni seguenti, con le forze dell’ordine che non intervengono e noi che stiamo zitti: solo un prete ha avuto il coraggio di dire che, quando è la camorra ad ammazzare per sbaglio un ragazzo, a Napoli non va in piazza nessuno.
Discorsi da vetero leghisti? Tutt’altro. Chi vuol bene a Napoli pensa che, proprio a tutela dei suoi cittadini migliori (la maggioranza) non si deve tacere della piaga dell’illegalità diffusa; e si deve invocare l’intervento dello Stato, non la sua ritirata. Negli Stati Uniti è appena successo qualcosa di simile, e Obama ha deciso che se un poliziotto ha sbagliato pagherà; ma di fronte alle devastazioni e ai roghi non si assiste inermi, si interviene. In Italia invece, come nella «Don Raffaé» di Fabrizio De André, «e lo Stato che fa, si costerna s’indigna s’impegna poi getta la spugna con gran dignità».
Fonte: Michele Brambilla per La Stampa
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