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L’intervista integrale di Lavezzi a GQ: “La testa è tutto”

La bellezza è un agguato di pomeriggio. Inatteso e furtivo. Il sole che sbiadisce lento dietro gli alberi della pineta di Castel Volturno. Nessun rumore. Solo il tonfo grave del pallone e remoti richiami urlati di schemi e passaggi. Il prato verde e il suo odore. Un profumo che ti riconcilia con la vita e col futuro.

L’allenamento della squadra del Napoli. I ragazzi che scattano, come rapinatori. I tiri improvvisi, alla ricerca del presagio del gol in partita. Questo è Cavani. La facilità d’esecuzione. La naturalezza dei gesti fisici e tecnici. Gli esercizi col pallone. La serenità che commuove, spaccata da risate convulse di chi ha vent’anni. Anche le risate sono serie. Non hanno bisogno di richiami autoritari. S’interrompono da sole. Svaniscono di fronte alle ansie da prestazione. Domenica c’è una partita importante. Lo sanno pure i muri e i camorristi.

Una cosa è il calcio. Un’altra cosa è il calcio visto da vicino. Un’altra cosa ancora è il calcio dei campioni della serie A visto dentro la bellezza della pineta di Castel Volturno. Un’oasi sfuggita chissà come alla devastazione ordita dall’ignoranza. Il litorale domizio ripiega da anni nella sua morte, lasciando che anche la nostalgia di quello che fu non trovi impiego. La trasformazione al ribasso è stata così radicale che il cuore non ce la fa a incaricarsi della malinconia. Ma quest’angolo ritagliato dalla Società Sportiva Calcio Napoli fa rivivere il miracolo. Le cose sono intatte, meglio di allora, meglio di quando venivo a cantare a Baia Verde perché era un posto di una certa rilevanza. Per una volta, non devo dire com’era meglio allora.

Dimenticate il gradasso congenito che è in me. Quando Tony Pagoda sbarca nel ritiro del Napoli per assistere all’allenamento, gli prende la soggezione. Come davanti a Dio. I giocatori sono angeli trapassati dalla bellezza degli anni migliori. Dentro le regole ferree del professionismo, non si riesce a contenere un sentimento che sprigiona dappertutto. Sbuca da dentro le docce e da sotto i tubi di scappamento delle Bmw nere. Affiora tra le reti metalliche e le parole in codice del gruppo. È il sentimento della libertà applicato a quell’età della vita che si rimpiangerà per sempre, senza interruzioni, con ottuso accanimento e aggressiva invidia. La libertà! La libertà! La libertà!

Non me ne frega un cazzo se i giocatori sono viziati o arroganti, superbi o tronfi. Sono ragazzi. Sanno fare senza sforzo le cose difficili, cosa che non smette di commuovermi e meravigliarmi. Corrono in mezzo a dei paletti con scatti da ghepardi e basta per farmi dire che sono innamorato per sempre di loro. Non si costruisce la vita sprofondati nelle poltrone a lamentarsi. Chi corre e urla ha la meglio sul mondo e su di me.

L’allenatore Mazzarri è a colloquio individuale con Lavezzi. Niente di grave. È la prassi. Una squadra ha molti figli e molti padri. Mentre aspetto che finiscano e inizino, sbircio un altro allenamento, quello dei ragazzi della Primavera. Diciottenni padroni del nuovo dialetto napoletano, lingua a me sconosciuta. Facce da scugnizzi che dopo se ne vanno al bar Cavallo. Persone del popolo che, davanti al pallone, diventano principi e nobili. Si staccano al di sopra della merda. Fanno arte. Il loro allenatore fa un discorso che andrebbe insegnato nelle scuole.

Recita più o meno così: «Il talento, voi, ve lo potete mettere sulla uallera. Qui mi dovete far vedere che faticate e giocate per la squadra. Altrimenti, non giocate. Tanto, il talento che poteva permettersi di fare tutto da solo era uno e basta. Alto un metro e sessanta, adesso non gioca più. Nessun altro ha quel talento. Dunque, se volete diventare calciatori come quelli là che tra poco escono dagli spogliatoi, dovete buttare il sangue. Stasera, quando tornate a casa e accendete il computer, non vi andate a guardare i siti pornografici ma la classifica e capite cosa dobbiamo fare. Ora otto minuti di riscaldamento, poi solo pallone». I ragazzi non dicono una parola. Incassano. E prendono ad applicarsi come artigiani in via d’estinzione. Al bar Cavallo non ci pensano più. Poi solo pallone, pensano. Ancora una volta, siamo dalle parti della bellezza pura. Corrono come dannati.

Dopo poco passano i calciatori della serie A. Per ultimo, appare lui, il Pocho, Lavezzi. Quelli della Primavera lo guardano come si guarda Gesù quando era in forma. Io Lavezzi lo conosco. C’ha la generosità dentro i pori. È conscio del suo ruolo. Sa che è un procuratore di gioia. In una stanza gli ho chiesto: «Ma tu la sai fare la rovesciata?». Lui si è messo di fronte al letto matrimoniale, ha fatto un volo di due metri e mi ha fatto vedere come si fa la rovesciata in serie A. Sono cose che rimangono azzeccate alla memoria di un uomo, queste cose qua.

Il Pocho, quando parla, ha un’unica missione: emanare equilibrio da se stesso. Non posso biasimarlo. Vive nella città più squilibrata del mondo. E tutti, chi in buona fede, chi no, complottano per tirarlo dentro il disequilibrio. Lui me lo dice a modo suo: «Ho venticinque anni, ma sono più maturo di tutti gli altri che hanno venticinque anni». Ed è vero. Ha un figlio. Un divorzio. Una fidanzata argentina. Gli dico: «Ma perché vi sposate tutti così giovani?». Risponde: «Andiamo contenuti». Me lo ripete spesso: «Ci dobbiamo contenere», sottintendendo che se uno come lui ne ha voglia, coi soldi, la gioventù e tutta quella popolarità, ci vuole mezzo secondo per non contenersi. E per non ritrovarsi più. Qua basta niente e si finisce dentro le vasche idromassaggio a forma di conchiglia, coi boss che ti fanno sentire come Scarface.

I padri del Napoli, invece, penso sanno, fare i padri. Hanno la pazienza di Giobbe. Come Bigon, il direttore sportivo. Un uomo con l’attitudine a una laica santità. Rassicurante e giovane. Una combinazione che mi fa riscoprire il significato profondo della parola tenerezza. O come Concina, un uomo bello con la faccia sormontata dalla malinconia di una vita trascorsa perlopiù al freddo in Canada e che ora, non più giovanissimo, non più sposato, si è orgogliosamente rimesso a vivere come collaboratore del guru Mazzarri. Uomini da più vite, una striscia di tristezza in mezzo alle pieghe della pelle come tutti i calciatori, che interrompono la biografia più bella poco sopra i trent’anni, laddove gli altri coetanei mettono per la prima volta la testolina fuori. Ci credo poi che si sentono più adulti. A trentadue anni hanno visto tutto e percepiscono il baratro della dimenticanza.

Pocho, parlate mai tra voi di quando lascerete il calcio? Gli sfugge un occhio triste: «Mai. Nessuno ama parlare di queste cose».

E ci credo. Chi vuole lasciare il prato profumato, il boato della gente, così forte che alle volte in campo ci si chiama e non ci si sente? Il mal di pancia il sabato prima della partita. Le risate, i pullman. Le sfuriate del mister tra primo e secondo tempo. Le gambe che non te le senti dopo la partita. Se questa non è vita, allora è felicità. E come tutte le intuizioni di felicità, possono essere insopportabili. Tanto che il Pocho, periodicamente, pensa di smettere. L’ha già fatto a sedici anni. I talent scout se lo sono andati a prendere per i capelli. Le condizioni dell’uomo difficili da affrontare sono molte, la felicità più di tutte. Le orge convulse degli accadimenti nuovi fanno paura. Bisogna contenersi.

Ancora un padre mi passa davanti. Si chiama Cristiano Lucarelli. Calcisticamente parlando, non è più giovanissimo. Sembra un ottimo avvocato con l’hobby della palestra e invece è un fuoriclasse del pallone. Anche lui mette serenità. Una squadra è una complessa miscela di equilibri. Per ognuno che gira a duecento all’ora in macchina senza targa ci vuole un Lucarelli che compensa. È così che i palloni finiscono in fondo alla rete la domenica. Si parte da lontano. Si parte dall’umanità, non dal talento. Il Pocho me lo dice: «Sai quanti ne ho visti in Argentina? Erano fortissimi. Giocavano che mettevano paura. Te li aspettavi in Nazionale l’anno dopo e invece non li ritrovavi neanche nelle serie minori. Svaniti. Talentuosissimi e rimasti al paesello. Nessuna applicazione. La testa è tutto. Posso essere stanco, ma se ci sto con la testa gioco bene. Quando entro in campo lo so subito se giocherò bene o male perché so come sto con la testa. Non mi dico mai che sono forte. Mi dico che non sono superiore ma neanche inferiore agli altri».

Non ti manca la vita normale di tutti i ragazzi? Che possono uscire e far tardi. Decidere di bere un cocktail in più o farsi trascinare dall’anarchia della gioventù? Tu tutte queste cose non le puoi fare. Mi guarda e senza esitazione dice con tono neutro: «Ci si abitua».

Il migLiore amico del Pocho è Campagnaro, che sembra Kevin Costner, ma i sudamericani del Napoli sono un gruppo nel gruppo. Inseparabili e allegri. Dallo spogliatoio, a volume mostruoso, arriva musica brasiliana. Passa Hamsik, occhiali e sguardo da intelligenza totale. Sembra un giovane medico. Ha un’aria educata che lo rende elegante. Un fisico normale. Il Pocho mi dice sincero: «È lui quello tecnicamente più forte nel Napoli». Lo sanno in molti. Lo vorrebbero tutte le squadre a colpi di milioni.

Lui si leva gli occhiali e traccia geometrie in mezzo al campo con la sicurezza di un professore universitario che studia da quarant’anni sempre la stessa materia.

Questo clima idilliaco, calmo e sereno, avrà la sua somma interruzione domenica. Il giorno atteso. Il giorno della guerra. Oggi c’è la quiete prima della tempesta, ma domenica un difensore dal primo minuto di gioco intraprenderà la sua guerriglia psicologica contro Lavezzi. È quello che il calcio in tv non riesce a mostrare. Spesso il difensore offende, sussurra, dice cose minacciose all’attaccante anche quando la palla è lontana. Lo deve inibire nella mentalità prima ancora che nella gambe. Perché, ribadisce il Pocho, la testa è tutto. Il più rognoso di tutti, in questa guerra, è Chiellini. Un colosso che gioca nella Juventus. «Fuori dal campo tutto bene con lui», dice il Pocho. «Ma in partita è un rompicoglioni, ti innervosisce continuamente».

Sta andando, il sole. In allenamento, Dossena prova dei tiri, in controluce. Sfonda la rete, con violenza inaudita. È la rilassatezza che lo fa essere impeccabile. Se si riuscisse a preservare questa dose di abbandono anche in partita, si vincerebbe sempre. Ma non è così. Cavani cerca la porta da qualsiasi posizione. Se non segna, non vive. È la condanna del centravanti, si sa. Mascara sbuca dal nulla, come i topi. Zuniga muove le gambe come un campione di balli sudamericani. Lucarelli corre solitario con un cronometro in mano. Lavezzi prende in giro il suo amico procuratore che l’aspetta a bordo campo, per ricordargli, tra battute e risate, che gli vuole bene e che dal momento che la fidanzata sta partendo ci sarà lui a contenerlo.

È l’inarrivabile spettacolo della serie A. Lo spettacolo di chi fa cose proibitive per i comuni mortali. L’autunno elargisce odori meravigliosi. Il sole si fa sempre più basso. L’allenamento è vicino alla conclusione. Ma si materializza lui, il mister. Dispone la difesa e l’attacco. Fa un’esercitazione. Spiega una cosa così complicata che io penso che nessuno ha capito niente. Ne sono certo. Sembrano nozioni di geometria avanzata applicate a un pallone che rotola, il tutto da compiersi in tre secondi. Mazzarri dice: «Proviamo». L’attacco si muove, la difesa si muove. Mazzarri s’incazza. Lo spiega un’altra volta. Urla, si dimena. Rimprovera Aronica che si è distratto col massaggiatore. Per rendere più comprensibile l’esercitazione ricorre a un’altra nube di parole che a me sembrano un’ulteriore complicazione. Dice: «Riproviamo».

E come in una fiaba, tutti cominciano a muoversi come aveva detto lui. Sono io che non avevo capito niente. Io sono un cantante. Loro hanno capito tutto. La testa, nel calcio, non è solo una condizione psicologica, ma è un nucleo che deve rispettare ordini dettati dal mister, e si hanno pochi secondi a disposizione per fare le cose per bene.

Mazzarri insiste, non è contento. Non può esserlo, se si accontentasse, la baracca si sfascerebbe in dieci minuti. Vuole la perfezione. Vuole che il foglietto che sventola tra le mani con complicati disegni diventi realtà. Per questo, all’improvviso, dice una cosa che mi fa sussultare. «Quando vi muovete in questo spazio così stretto, la zona non la potete fare più. Dovete fare la marcatura a uomo. Dovete fare il duello».

Il duello. La marcatura a uomo. Bruscolotti contro Butragueño in una notte al San Paolo contro il Real Madrid. Quando giocare di notte era un fatto eccezionale che ti faceva salire l’adrenalina nei capelli tinti. Gentile contro Maradona. La maglia strappata. Il caldo, la birra e la spensieratezza. La nostalgia per i miei anni migliori. Uno fa finta che il mondo era meglio prima ma non è vero, eri tu che eri meglio prima. Ci è voluto il mister per ricordarmelo, che continua a urlare in lontananza: «Marca a uomo, marca a uomo». La cioccolata scadente fuori lo stadio, due pezzi mille lire. La trattativa col bagarino. Gli amici della partita, si va con l’850 di Giampaolo Galluzzi al campo. Sempre la stessa disposizione in macchina, altrimenti si perde. Il sale buttato sugli spettatori per scacciare la iella. Tengo le lacrime agli occhi. Anche la nostalgia è una forma di bellezza. Un altro agguato in questo pomeriggio bellissimo.

La Redazione

C.T.

Fonte: Paolo Sorrentino per GQ

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