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La geografia del tifo al San Paolo: dai Mastiffs alle Teste Matte…

Fermano le partite, decidono chi gioca e chi no, se un allenatore è sopportabile e uno straniero accettabile, ci sono da sempre, cambiano i governi, si inaspriscono le pene, ma loro passano, mutano antropologicamente, barattano vite e ideologie per il controllo di un territorio, che poi spesso è circoscritto a una curva: sono la tribù trasversale degli ultrà. È con loro che bisogna trattare per giocare. È il loro assenso quello che si aspetta. Sono parassiti del calcio, col tempo dimenticano persino la bellezza del gioco, il loro diventa un mestiere, si ergono a mediatori sociali tra le curve e il campo, le periferie e i centri delle città. E il pallone diventa una questione di gloria, maglie, pelle, territorio, poi anche gol. Ogni partita è una occasione per esercitare il proprio potere. Sono intorno a noi, vicino a noi ma li vediamo solo quando intralciano le partite, si frappongono allo spettacolo, mercanteggiano l’assenso, impongono decisioni e svolte. Genny, Gastone, Mario, Bocia, drughi, draghi, mastrolindo, capi indiani, barbari, nazisti, rossi e neri, guerrieri e non, alla fine son sempre qua, con le stesse modalità: minacce, violenza, e spesso troppo spesso, per un paese normale, morti. Chi l’altra sera si è indignato o non ha visto ancora niente o non si ricorda del derby Roma-Lazio che è un album di odi e violenze. Si può aprire a caso e trovare storie: 21 marzo del 2004, Francesco Totti, il capitano, venne avvicinato da tre ultrà della Roma – arrivati nel campo scavalcando i cancelli, dribblando la polizia – che gli intimarono di chiedere la sospensione della partita con la Lazio perché era arrivata voce di un bambino investito da una camionetta della polizia. E così dall’altra parte facevano altri ultrà con Giuseppe Favalli. Non era vero, ma la partita fu rinviata, nonostante i fatti fossero differenti, la verità pure. Lo chiedeva la curva, che si fece sentenza, tribunale, negando il permesso di giocare. Era l’ordine. E l’altra sera, Gennaro De Tommaso, detto «’a carogna», indossava una maglia nera che chiedeva libertà a grandi caratteri per Antonino Speziale, finito in carcere per l’omicidio dell’ispettore di polizia Filippo Raciti prima del derby fra il Catania ed il Palermo del 2 febbraio del 2007. Si mescolò la festa di Sant’Agata e la partita, l’odio e i fumogeni, fuochi d’artificio e scontri: prima e dopo, partita sospesa, mediazione, poi ripresa, alla fine più del risultato si contarono 140 feriti, di cui metà della polizia e un ispettore capo ucciso. E sempre in Sicilia il 17 giugno del 2001, durante Messina-Catania play-off di serie C1, ci furono scontri e il lancio di una bomba carta che colpì un giovane messinese di 24 anni, Antonino Currò, che poi morì dopo due settimane di coma, in quel caso era davvero giusto mediare e fermare tutto, ma così non fu. E se lo ricordo è perché vale come caso emblematico, non ci sono colpevoli e la storia è stata archiviata. È soprattutto nei derby che si creano le condizioni per gli scontri, e quelle per le trattative, come nella partita tra campane: Salernitana e Nocerina di Lega Pro, di qualche mese fa, durato solo venti minuti. Il prefetto vieta ai tifosi della Nocerina lo stadio Arechi di Salerno, e loro si presentano in ritiro: «Senza di noi non andate a giocare», è la minaccia, il progetto e anche l’unica condizione possibile. La Nocerina sceglie una via di mezzo: va ma con disonore, effettua subito le tre sostituzioni possibili, poi comincia una recita a soggetto: crampi ed infortuni improvvisi, che colpiscono cinque calciatori. È la vittoria della tribù, che festeggia ovunque dalla città ai social network. E quando non è derby è spoliazione, perché gli ultrà hanno sempre lo stesso movimento come la stessa finta di un calciatore: richiesta che non si può né si deve rifiutare, presidio del territorio, occupazione con eventuale sospensione del gioco, dimostrazione della forza con umiliazione e/o scontri, segue trattativa. Un caso dispari è quello del 22 aprile 2012, Genoa contro Siena, la squadra di casa perde quattro a zero, e la curva decide che può bastare, l’umiliazione collima con la sostituzione di Sculli. Interrompono la partita e chiedono ai calciatori di togliersi la maglia perché la disonorano, loro prima trattano, qualcuno piange come Giandomenico Mesto, poi eseguono, si sfilano le maglie – guidati dal capitano Marco Rossi che si fa raccoglitore – tutti, tranne Giuseppe Sculli che invece media, li raggiunge e spiega che lui è uomo d’onore e non abbassa la testa. Vittoria d’orgoglio, un mese di squalifica, trentamila euro di multa. Sempre Genova, stadio Luigi Ferraris, fuori c’erano già stati scontri, dentro si stava disputando la partita Italia-Serbia, qualificazioni euro 2012, ma dopo sei minuti, Ivan Bogdanov, capo ultrà serbo, incappucciato e arrampicato con un fumogeno in cima ai cancelli: blocca la partita, costringe le autorità italiane a trattare, dopo viene arrestato. In precedenza gli ultrà serbi avevano minacciato, salendo sul pullman della propria nazionale, il portiere Vladimir Stoikovic, ferendolo. E di tante mediazioni e minacce è fatto anche il calcio dopo le partite, fuori dal campo, pressioni enormi, ricatti, dalle foto alle feste, obblighi non scritti che le società lasciano passare fino a diventare veri codici da rispettare, che ad alcuni convengono, ad altri no, soprattutto quando diventano imposizioni di scelte tattiche come quelle a Marco Gianpaolo, allenatore del Brescia che preferì andarsene senza mediare, in silenzio, perché «in Italia comandano gli ultrà». Che trasformano gli stadi in trappole, le partite in trattative, le contrapposizioni di tifo in battaglie, i calciatori in pedine. E quello che accomuna tutte queste partite, interruzioni, prove di forza, è l’indifferenza verso il gioco, quasi che non fosse il motivo principale di tutto il circo che gira, crea e alimenta il tifo.

 

Fonte: Il Mattino

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