«State sbagliando: non è di me che dovete preoccuparvi, ma del ragazzo che è stato ferito»: Genny la Carogna, o meglio Gennaro De Tommaso, parla pacato. Non si difende. Attacca. Trovarlo non è difficile: tra Forcella e piazza San Gaetano, dove è nato, lo conoscono tutti. E i messaggi corrono veloci: basta chiedere di lui, qualcuno accetta di chiamarlo e l’appuntamento è fatto. Jeans e giubbino, mani in tasca e viso affranto, la Carogna offre un’immagine che non ti aspetti. A cominciare dal nome: non è suo, raccontano nei vicoli, lo ha ereditato dal padre, e non indica cattiveria, ma sfortuna. E di quel nome lui non fa mistero e non si vergogna, anzi sorride dell’imbarazzo di chi lo pronuncia. E non è vero nemmeno che a suo carico sabato ci fosse un Daspo, una diffida con obbligo di firma: il provvedimento, spiegano quelli della curva A, è scaduto da tempo. Seduto tra gli amici su una panchina del centro storico non è facile riconoscere Genny, anche se la sua immagine impazza sul web e una pagina Facebook che lo sostiene in poche ore ha già raggiunto i seimila «mi piace». Il ragazzo pacato che difende le ragioni sue e dell’intera Curva A somiglia poco a quello che ha sbalordito milioni di italiani in diretta Tv. Lo abbiamo visto tutti con la maglietta che inneggia Speziale, l’ultrà del Catania, condannato per l’uccisione di un poliziotto Raciti, mentre con le braccia alzate e coperte di tatuaggi sembra dare il via alla partita tenendo in pugno i sui compagni. E quindi la squadra. E quindi le forze dell’ordine. E quindi una capitale assediata. Ma lui smentisce categoricamente che tutto questo sia successo. E racconta una storia completamente diversa. A volte confusa, lacunosa. Ma che esclude assolutamente ogni patto con la squadra e con le forze dell’ordine. Come è andata veramente sabato a Roma? «Quelle che sono state scritte sono tutte sciocchezze. Hamsik è venuto da noi solo per rassicurarci sulle condizioni del nostro amico, per dirci che stava meglio, che poteva farcela. Lo stesso messaggio che ci hanno dato le forze dell’ordine. Noi abbiamo parlato con tutti con calma e rispetto, senza minacce o provocazioni. Non c’è stata alcuna trattativa tra la Digos e la curva partenopea sull’opportunità di giocare o meno la partita. Il resto sono invenzioni dei giornalisti». Quindi nessuna trattativa? «Ovviamente no. Quello che è successo sabato è inaudito, non era mai accaduto che qualcuno sparasse ai tifosi. Di tutto questo sembra non importare niente a nessuno. Ma a noi sì, a noi interessa. Ed è per questo che abbiamo deciso di rinunciare alla coreografia che avevamo organizzato e che ci era costata quindicimila euro. E la stessa cosa hanno fatto anche i supporter della Fiorentina. Come avremmo potuto srotolare gli striscioni, e cantare, e ballare quando uno di noi era in fin di vita? Ci siamo rifiutati di farlo. Ma non abbiamo minacciato nessuno e non abbiamo detto di non giocare. Né avremmo avuto il potere per farlo. Noi non possiamo decidere nulla». Siete rimasti sugli spalti? «No. Nessuno poteva costringerci a restare allo stadio e infatti subito dopo il primo gol molti di noi sono andati via. Più che del Napoli ci interessava di quel ragazzo in fin di vita. Perciò siamo rimasti tutta la notte in ospedale con la famiglia e con le forze dell’ordine». Come è stato ferito il tifoso napoletano. Cosa è successo prima dell’ingresso allo stadio? «Ci stavamo dirigendo verso la curva Nord dell’Olimpico scortati dalle forze dell’ordine. Poi è successo l’inferno, abbiano sentito i colpi e ci siamo accorti che tre di noi erano rimasti a terra. Una cosa del genere non si era mai vista, pure quando uccisero quel tifoso all’Olimpico, Paparelli: allora non spararono un colpo di pistola, ma un razzo che purtroppo gli finì in un occhio. Perciò i fatti di Roma sono gravissimi». E quella maglietta che inneggia all’assassino di Raciti, non è un gesto di sfida? «No, anzi. L’unica cosa importante di questa storia ormai è diventata la maglietta che io e gli altri tifosi indossiamo. ”Speziale libero” c’è scritto. Ma attenti: la maglietta è in onore di una città dove abbiamo tanti amici e nei confronti di un ragazzo che sta chiedendo attraverso i suoi legali la revisione del processo. È una richiesta di giustizia, non un’offesa contro una persona deceduta o contro i suoi familiari». Ma le tifoserie non ricattano, non minacciano, non tengono in pugno le società? «Tutte favole». L’intervista è conclusa. Intorno alla panchina di Genny restano quattro o cinque giovanotti, poi ogni tanto c’è chi va, c’è chi viene. Insieme hanno visto le partite in un pub e ora restano riuniti in piazza tra le scritte che inneggiano «Mastiffs». Sono in attesa di notizie da Roma, hanno un filo diretto con la famiglia di Ciro Esposito e sono in collegamento anche con un gruppo di supporter della Lazio: «Perché la filosofia ultras – spiega uno – non è quello che voi raccontate. Ma è anche solidarietà tra tifosi». E un altro conclude: «Se ci sarà bisogno organizzeremo una colletta per permettere alla famiglia del nostro amico di restare a Roma per assisterlo». Poi tutti si raccomandano: «scrivete la verità. Fate il piacere: non vi inventate niente».
Fonte: Il Mattino
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