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Diffide, tessere e divieti d’accesso: il flop dello Stato contro gli ultras

Sono sempre più spavaldi, si sentono i padroni in campo e fuori, e non a caso alzano la testa fino a superare anche l’ultimo confine: riuscendo così a dettare le condizioni in una partita di finale di Coppa Italia. Le immagini di Genny ‘a carogna – al secolo Gennaro Di Tommaso, pluripregiudicato napoletano e “guru” del gruppo dei “Mastiffs” – hanno già fatto il giro del mondo mentre un altro mondo, quello dello sport, comincia finalmente a interrogarsi sui rimedi, sugli antidoti necessari a bloccare gli effetti del veleno ormai già in circolo negli stadi italiani. Le Curve al potere. Il groviglio dei compromessi, la rete delle convenienze che disegnano piani incoffesabili e un silenzioso mutuo soccorso tra hooligans e società calcistiche; i ricatti e le concessioni, le minacce e le vendette: ecco i pilastri sui quali si fonda oggi il grande equivoco che fa degli ultrà italiani i principali interlocutori dei club. E mentre sullo sfondo sempre più debole e vana si fa la lotta dello Stato e delle istituzioni contro i violenti da stadio, a popolare questo mondo sono sempre più i violenti travestiti da tifosi. Un sottobosco umano popolato da pregiudicati, spacciatori, affiliati e più o meno organici alla criminalità organizzata: eccoli, i nuovi protagonisti indiscussi di questo basso impero pallonaro. E il fenomeno non ha latitudini: da Torino a Verona, da Roma a Milano, passando per Napoli, Catania, Bologna e per tutto il resto d’Italia è la “mentalità ultrà” quella che oggi detta legge dentro e fuori il rettangolo di gioco. A dicembre gli ultrà atalantini si sono distinti per una domenica di ordinaria follia in occasione del match con la Roma, e così un pomeriggio di sport si è trasformato in una serata ad alta tensione, con una serie di scontri con le forze di polizia durati quasi un’ora, con un bilancio finale di due feriti; per un’intera giornata la guerriglia trasformò Bergamo in una città sotto assedio, mobilitando per oltre 24 ore qualcosa come 500 tra poliziotti, carabinieri e finanzieri. Sempre a dicembre, a Milano, il prepartita di Champions tra Milan e Ajax si trasformò in una caccia all’uomo con reciproci raid tra avverse fazioni e presentò un conto pesantissimo, con sei tifosi accoltellati (uno dei quali, olandese, grave). Che dire poi di altri episodi, a cominciare dal clamoroso diktat imposto dai capi del tifo duro e puro genoano due anni fa in occasione della prtita contro il Siena? Con la squadra di casa sotto di quattro gol gli ultrà provocarono la sospensione di 45 minuti del match, obbligando i calciatori a togliersi le magliette come punizione per lo scarso rendimento in campo. Per la cronaca, restando nel capoluogo ligure: gli ultrà di Genoa e Sampdoria ogni anno si cimentano in una sfida quasi ufficiale, a pugni nudi, lungo il Bisagno, non lontano dallo stadio di Marassi. Identica scena si verificò a Cagliari, dove al termine di un’amichevole una ventina di pseudo tifosi dopo aver invaso il campo costrinsero i giocatori rossoblu a consegnare maglie e pantaloncini. Più che una richiesta, un obbligo. E l’elenco potrebbe continuare: perché nel libro nero degli episodi che mortificano lo sport e il calcio, oltre alle partite del massimo campionato, ci sono poi anche le serie minori, dove il fenomeno violento trova nuovi e potenti moltiplicatori. E gli strumenti di contrasto? Le palizzate erette per contenere lo straripante fiume in piena del fenomeno ultrà non hanno retto. Diffide, Daspo e tessera del tifoso si sono rivelate armi spuntate. Prendiamo proprio il divieto di accedere alle manifestazioni sportive: nato sotto i migliori auspici, avrebbe dovuto rappresentare una sorta di “arresto domiciliare” per l’ultrà che si è macchiato di reati o comportamenti impropri comunque riconducibili alla sua condotta di tifoso. A Napoli, in questo ultimo decennio, ne sono stati emanati a decine, se non a centinaia. Con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Se moltiplichiamo poi il numero dei Daspo per il resto d’Italia allora ci accorgeremo che governare la massa di ultrà sottoposti all’allontanamento dagli stadi è opera impervia, per non dire impossibile: anche perché servirebbe l’Esercito – il sabato, la domenica, il lunedì dei posticipi e nei giorni canonici infrasettimanali in cui si svolgono le partite di coppa – per verificare la reale osservanza dei provvedimenti adottati dai questori e per controllare che i “daspati” si tengano effettivamente alla lontana dagli impianti sportivi. Ancora più fuori dai denti va detto che forse il principale nodo da sciogliere è un altro. Gli ultrà del calcio sono ben noti ai club e ai giocatori. Il loro “impegno” sopra le righe talvolta viene corrisposto generosamente con la moneta preferita dagli hooligans: biglietti d’ingresso e sovvenzioni per le trasferte. Non a caso in un passato anche recente numerose indagini hanno dimostrato come dietro le continue richieste di simili privilegi si nascondessero dei veri e propri tentativi di estorsione ai danni dei club. Ed è inevitabile che tutto questo abbia alimentato nel mondo ultrà il convincimento di essere diventati i portatori di una “delega in bianco” a trattare, a intervenire, a far sentire in maniera sempre più sguaiata la propria voce in tutto ciò che ruota intorno a una partita di pallone. E dunque? Quali rimedi, nell’immediato, potrebbero essere utili a scongiurare scene come quella vista l’altra sera all’Olimpico, con i dirigenti e il capitano di una squadra finalista di Coppa Italia che vanno a “trattare” con un ultrà che si erge a delegato del tifo di un’intera curva? A lanciare un’idea è Antonello Ardituro, magistrato napoletano e pubblico ministero che ha indagato per anni sulle violenze riconducibili agli ultrà azzurri. «Quello visto a Roma nello stadio – spiega – non è stato uno spettacolo edificante. Anzi. Per evitare che simili scene si ripetano basterebbe poco: servirebbe una modifica del regolamento calcistico che impone il divieto ai calciatori di avere ogni tipo di contatto con i capitifosi ultrà prima e durante ogni incontro sportivo, pena una lunga squalifica per gli stessi calciatori che infrangono questo principio».

 

Fonte: Il Mattino

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