A mano a mano che passavano le interminabili ore di attesa per la famiglia e per i tantissimi amici arrivati da Napoli al pronto soccorso e alla rianimazione del Policlinico Gemelli, questo finale di partita, della partita con la vita che il giovane tifoso del Napoli, ferito da un ultras romanista, sta giocando da sabato pomeriggio, contiene un verdetto al quale i genitori, a cominciare dalla madre Antonella Leardi, si stanno amaramente rassegnando: «I medici hanno dato a Ciro poche speranze di recuperare la possibilità di muovere le gambe». Ma l’equipe coordinata da Francesco Tamburelli è più cauta: nei prossimi giorni sarà valutato l’impatto dell’intervento di riparazione delle lesioni causate dallo sparo. L’operazione, cominciata intorno alle 14,30 di ieri, è durata meno del previsto e tecnicamente è riuscita. Si è conclusa verso le 19. «I medici ci hanno detto che è andato benissimo. Ovviamente, Ciro torna in rianimazione» ha annunciato la madre alla fine. Il padre Giovanni le ha fatto eco: «Il Signore ci ha posato la sua mano». Ciro, un ragazzo solare, secondo di tre fratelli, lavoratore instancabile nell’autolavaggio di famiglia a via Ghisleri, una passione per il Napoli, per i viaggi, per la musica, Ciro, il trentenne di Scampia, la faccia pulita di un quartiere amaro, aveva ripreso conoscenza quando i medici lo avevano tirato fuori dal coma farmacologico, prima di portarlo in sala operatoria. Ha visto davanti a sé i volti amati della madre e del padre Giovanni che, prima che l’intervento chirurgico cominciasse, hanno dovuto dare il loro consenso di prammatica. «Ci ha guardati» racconta con il padre «ci ha riconosciuto e ha abbassato la testa». Gente che fatica e porta avanti la famiglia in un rione borderline, ma che gli ha insegnato il senso della comunità. Così, nelle parole dei genitori di Ciro non c’è odio. «Per me quello che è accaduto a mio figlio è una mostruosità» ha commentato la madre. «Ma io nel cuore ho già perdonato chi ha colpito Ciro, anche se non riesco a capire quello che ha fatto. Forse sono sbagliata io, ma non lo odio. Siamo fratelli d’Italia». Antonella, un aspetto mite, la voce bassa, rotta dal dolore, non sopporta i pregiudizi e non ci sta a vedere il suo ragazzo bollato per il marchio di un quartiere difficile: «Mio figlio lavora nel lavaggio tutto il giorno. È tifoso da quando era bambino. Andava allo stadio di nascosto. E ora sono offesa, anzi arrabbiata, per le bugie che sono state dette in televisione, quando hanno parlato di agguato camorristico. Siamo persone perbene, veniamo da Scampia, ma Scampia è fatta, per il 99 per cento, di persone perbene che lavorano». A rincarare la dose è papà Giovanni, aiuto infermiere alla clinica Lourdes di San Sebastiano al Vesuvio: «Ci hanno accusato di essere camorristi. A noi? A noi, che ci guadagniamo il pane onestamente. I camorristi sono loro, quelli che hanno dato a chi ha ferito Ciro, un ultras con molti precedenti, un chiosco davanti allo stadio Olimpico. L’hanno dato a un uomo che va sparando a chi andava a vedere una partita di calcio». Sulle panchine di marmo all’aperto, il numeroso gruppo di napoletani si scambia sguardi angosciati e parole di conforto. Una famiglia di zii e cugini molto unita. «Siamo otto tra fratelli e sorelle» spiega Giovanni «e molti sono qua, a sostenerci, affranti come noi». Ciro è fidanzato da tempo con Simona Rainone che lavora come commessa. È lei a mostrare le foto, postate sul profilo Facebook, che la ritraggono insieme al suo ragazzo. Momenti di serenità davanti a un bicchiere di vino o al mare. Le indica senza parole e gli occhi le si gonfiano di lacrime, lacrime silenziose, le più strazianti. Non ce la fa a parlare. Lo sguardo fisso in un punto indefinito. «Simona» spiegano i parenti ha perso entrambi i genitori e ora ha solo Ciro, stanno pensando al matrimonio. Come hanno potuto farle pure questo». Insieme, Simona e Ciro, amano frequentare i locali con gli amici, divertirsi con semplicità, racconta una cugina del tifoso ferito: «Ciro è un ragazzo divertente, sempre con la battuta pronta che sa rendere felice la sua fidanzata». La passione per il Napoli s’intreccia con quella per i viaggi. Anche per questo, ogni volta che ha potuto, Ciro ha seguito gli azzurri nelle trasferte anche all’estero: in Inghilterra, in Spagna, ma tenendosi sempre lontano dagli ultras organizzati. Una partenza con gli amici più affiatati, quelli che ieri non hanno voluto far mancare il proprio sostegno. Sono arrivati alla spicciolata al Gemelli, viaggiando anche di notte. Insieme alla solidarietà della larga comitiva, è scattata anche quella dei tifosi di altre squadre di calcio. «Al Gemelli» racconta il fratello di Ciro, Pasquale «sono venuti gli ultras della Lazio e del Genoa. I laziali ci hanno accolti a ”casa loro”, Roma, offrendoci qualsiasi cosa potesse servirci». Una nota di risentimento invece verso il Calcio Napoli. «È vero che hanno dedicato la vittoria della Coppa Italia a mio figlio» si rammarica Giovanni. «Ma siamo stati lasciati soli. Nessun appoggio e, all’inizio, da parte della polizia, nessuna informazione su quanto era accaduto a Ciro. A me ha telefonato mio nipote che era con lui. Mi sono precipitato a Roma convinto che le sue condizioni non fossero gravi, che avrei potuto riportarlo a casa subito. Invece siamo qui, senza nessuna assistenza. E non sappiamo per quanto tempo saremo costretti a rimanerci». E punta il dito anche sui ritardi nei soccorsi: «Sono arrivati in ritardo. È assurdo. Cinquemila poliziotti e neanche un’ambulanza. Se non ci fosse stato mio nipote, Ciro sarebbe morto là a terra. È stato portato in ospedale con un’ora e mezza di ritardo, perdendo molto sangue». L’amarezza è andata, via via, stemperando con il passare delle ore e con i messaggi incoraggianti che arrivano sulla sorte del ragazzo di Scampia con il grande cuore azzurro che non vuole fermarsi. E che non si fermerà.
Fonte: Il Mattino
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