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Abete: «Ammiro De Laurentiis, il Napoli coi conti a posto è un esempio per tutti»

Il presidente della Figc: «Ha parlato chiaro a tifosi e giocatori. Significativo che ciò avvenga al Sud»

Se fosse un gol, quest’intervista sarebbe dedicata ad Antonio Ghirelli: «Una persona di valore, un uomo che ha amato e onorato lo sport italiano. È colui che ha dato importanza al ruolo del giornalismo sportivo coniugando la passione con la cultura e l’impegno sociale». La conversazione con Giancarlo Abete, presidente della Figc, inizia così. Sono le 14.58 di martedì 3 aprile, e il numero uno del calcio italiano siede a un tavolo rettangolare piazzato davanti all’ampia vetrata del suo ufficio in via Allegri, a Roma. Davanti a lui, poggiata su un tavolino tra due divani, una replica della Coppa del Mondo che mette ancora i brividi a guardarla. L’appuntamento era per le 16, ma Abete ha chiesto di anticiparlo: «C’è la camera ardente di Ghirelli, voglio andarci». Lo farà dopo settantacinque minuti passati a parlare del Napoli, dei suoi bilanci, del suo stadio, della finale di Coppa Italia. E della sua città, ché «guardare uno stadio intero cantare ‘O surdato ‘nnammurato è una cosa che riconcilia con il calcio».

Iniziamo proprio dal campionato, presidente. Se i tifosi a Torino hanno visto forse il peggior Napoli, in compenso hanno ammirato uno stadio fantastico. È questo il futuro? «Lo Juventus Stadium è stato realizzato grazie a un rapporto virtuoso tra la società e l’amministrazione comunale, all’epoca guidata dal sindaco Sergio Chiamparino. È stato trovato un punto d’incontro, anche se il vantaggio è che il sito era già individuato, perché lo stadio è sorto dov’era il precedente. Trovare aree nuove è certamente più complesso, bisogna fare i conti con le linee di indirizzo dello sviluppo di una città».

Ha idee su Napoli?
«O si ristruttura il San Paolo, o si trova un’ipotesi alternativa».

Oppure non si fa nulla.
«Impossibile. Il San Paolo va rifatto o costruito altrove, non ci sono altre soluzioni. Un progetto preparato per la candidatura di Euro 2016 rivela che la ristrutturazione è onerosa e impegnativa. Ma è assolutamente fondamentale metterci le mani».

Come?
«C’è un disegno di legge alla Camera che regolamenta la materia, indica i parametri, prevede capacità edificatorie aggiuntive. Il problema è che è fermo da tempo, e nessuno si muove in attesa che l’iter si sblocchi. È un po’ come Il deserto dei tartari. O Aspettando Godot».

A Napoli si discute ancora tra chi vuole rimesso a nuovo il vecchio San Paolo e chi invece preferirebbe scegliere un’area diversa per poter ampliare la struttura. Lei con chi starebbe?
«Dovunque si realizzi, il megastadio è inutile. Gli indici di riempimento non servono più a nulla, sono collegati a un tipo di impianto che oggi nessuno farebbe. Alla fine degli anni ’80 di prediligeva la quantità, oggi si punta sulla qualità, sull’habitat del tifoso. Guardate la Juve: ha realizzato uno stadio a misura d’uomo, pur sapendo che — proprio per la capienza ridotta — non potrà mai ospitare una finale di Champions. Giusto così, non puoi costruire uno stadio per un evento che capita una volta ogni tanto».

Restiamo alla Juventus. Il 20 maggio a Roma si gioca la finale di Coppa Italia: per chi non ha la tessera del tifoso è prevista una «aliquota residuale» di biglietti. La soluzione la convince?
«Ci sono arrivate diverse mail dei sostenitori del Napoli che non sono in possesso della tessera del tifoso e corrono il rischio di non poter fruire di questo spettacolo. È necessario trovare un equilibrio, penso sia giusto valorizzare sia chi ha manifestato attaccamento alla squadra facendo la tessera del tifoso, sia chi ha sostenuto il club ma senza andare in trasferta».

Qualcuno resterà scontento.
«L’equilibrio è sottile. Non possiamo delegittimare né la tessera né chi quella tessera non ce l’ha. Dividere i tifosi in buoni e cattivi è un errore. Porterebbe a una guerra fratricida».

Si troverà una soluzione anche per gli arbitri di porta? Sarà possibile sperimentarli in quell’occasione?
«Assolutamente no. L’International board dice che la sperimentazione si può fare solo per l’intera competizione. Il 2 luglio si deciderà: tecnologia o arbitri di porta».

Lei cosa sceglierebbe?
«Gli arbitri. La tecnologia ti dice solo se la palla è entrata in rete o meno, gli arbitri d’area svolgono anche una funzione deterrente. E poi vedono l’azione di fronte, sanno valutare meglio i falli in caso di contatti tra due giocatori che si incrociano. Penso ad esempio al calciatore del Napoli Christian Maggio, che entra spesso in area tagliando dal fondo».

La finale sarà l’epilogo della stagione del Napoli. Che società vede il presidente della Figc?
«Un club che tiene i bilanci in ordine già da qualche anno. Un filotto positivo, la strada è questa. Ed è interessante che ciò avvenga in società del Sud come il Napoli ed il Catania, altro club che chiude in utile i bilanci».

Merito dei presidenti?
«Sì, perché Aurelio De Laurentiis e il duo Pulvirenti-Lo Monaco hanno avuto il coraggio di parlare chiaro anche con le tifoserie».

Qual è il messaggio?
«Possiamo crescere solo se manteniamo gli equilibri. E se riesci a far passare questo messaggio hai risolto il cinquanta per cento dei problemi».

E l’altro cinquanta per cento?
«Il Napoli ha avuto la capacità di individuare i giocatori giusti, e di saper resistere quando un calciatore, dopo aver aumentato il suo rendimento, ha tentato di modificare in corsa il contratto per trarne maggiori utili. Questa è una gestione del quotidiano decisiva, che pone il Napoli in condizioni di vantaggio su molte altre squadre».

Perché?
«Il fair play finanziario va avanti, e a breve costringerà tutti i club ad avere quegli equilibri che il Napoli ha già trovato. Il calcio è continuità, e devo dire che la società partenopea ha avuto la grande capacità di anticipare questi fenomeni».

Il Sud è quello delle società dai bilanci virtuosi. Ma, in queste settimane, è anche l’epicentro dell’ennesimo scandalo legato al calcioscommesse. Perché non si riesce ad arginare questo fenomeno?
«Il calcio rappresenta il Paese. Ha le sue eccellenze e le sue patologie. E, al di là degli aspetti emersi dalle inchieste, bisogna aver chiara la percezione che ci troviamo di fronte a un mondo nel quale si muovono un milione e quattrocentomila persone».

Che fa, minimizza?
«Macché. Questa è la premessa necessaria per comprendere che la società attuale è a rischio su tanti fronti, quello sportivo compreso. C’è un problema generale di caduta di valori del sistema morale, e non solo nel mondo del calcio. La percezione che s’è avuta, leggendo le cronache dell’inchiesta di Bari, è di come determinati ambienti abbiano inciso su un tessuto degradato di tesserati. Il problema, a volerla dire tutta, è che è cambiato anche il modo di barare».

È l’evoluzione del totonero?
«Diciamo che una volta l’illecito era collegato comunque a un obiettivo. Una squadra voleva vincere o non retrocedere, e se non ce la faceva con le sue forze ricorreva a irregolarità. A ben vedere, però, pur nella illiceità dei comportamenti c’era sempre e comunque una finalità sportiva».

E oggi invece?
«Le scommesse hanno cambiato il nostro mondo. Le puntate in Italia sono gestite dai Monopoli, che controllano e segnalano giocate sospette. Ma esistono centri di criminalità organizzata che operano su canali internazionali ignoti, e rappresentano un rischio assoluto. Tutto il sistema sportivo è sotto schiaffo, e questo è un vulnus sia per la regolarità delle gare che per l’immagine del calcio».

Non pensa che sia necessario rafforzare i controlli sui tesserati?
«Certo, e non a caso abbiamo inserito anche la previsione dell’omessa denuncia, perché spesso c’è chi sa e non parla. Il problema vero, però, è che il sistema della scommesse ha sparigliato i vecchi schemi. E se prima il calcio era comunque il fine di un’operazione illecita, oggi è solo un mezzo per lucrare. Ai tifosi interessa qualcosa se la propria squadra vince 4-0 oppure 4-1? No, per nulla. Eppure se la partita è stata pilotata perché qualcuno ha scommesso su quel risultato, l’esito della gara è comunque irregolare».

Commentando le dichiarazioni dell’ex difensore del Bari Andrea Masiello — che ha confessato di aver fatto un autogol perché s’era venduto la partita contro il Lecce — Donato Carrisi ha scritto sul Corriere della Sera che «venire traditi anche sul derby è l’incubo peggiore di ogni tifoso». È davvero un’aggravante?
«Io di derby me ne intendo: seguivo sempre quelli tra Benevento e Avellino, perché mio padre è stato presidente del club sannita dal ’67 al ’73. So cosa vogliano dire queste partite per un tifoso, ma devo dire che si tratta di comportamenti immorali in generale. E, a voler guardare la vicenda nel suo insieme, è assurdo anche l’atteggiamento di quei tifosi che chiedono alla squadra di perdere visto che è già retrocessa. È una pressione psicologica con la quale tentano di legittimare i loro comportamenti illeciti, come a dire: visto che siamo andati in B, almeno ci guadagno. Una cosa veramente oscena».

Torniamo al calcio giocato. E al futuro. L’Inter ci punta con un allenatore-ragazzo, Andrea Stramaccioni. Aurelio De Laurentiis ha detto che fosse per lui farebbe giocare tutti ragazzi. È d’accordo?
«Ho ascoltato le parole del presidente del Napoli che chiedeva di valorizzare i giovani. La mia opinione è che si tratti di frasi che rientrano in quei messaggi della società cui accennavo prima. È come dire ai tifosi che non si aspettino di andare oltre un certo livello prendendo mega-giocatori: ci sono equilibri da rispettare puntando sui più giovani, non immettendo risorse che solo gli emiri si possono permettere».

Il Napoli un emiro l’ha sfidato (battendolo) in Europa. Cos’ha rappresentato per il calcio italiano il ritorno degli azzurri in Champions?
«Ha testimoniato ancora una volta la capacità di gestione di De Laurentiis, perché il Napoli ha dimostrato di poter stare alla grande in questa competizione ma con tutti i bilanci in ordine. Questo è stato un messaggio importante per tutte le società calcistiche continentali, in linea con quelle prospettive sportive e gestionali indicate dall’Uefa. E poi ha trasmesso all’Europa l’immagine di un tifo antico, gioioso». Dice che ci hanno applaudito per questo? «Dico che oggi il tifo ha assunto una dimensione troppo strutturale, troppo organizzata. E perciò vedere tutto lo stadio cantare ‘O surdato ‘nnammurato alla fine della partita è una cosa che riconcilia con il mondo del calcio, ti dà la dimensione di una gioia che è quella di tutta la città. Perché questo, in fondo, resta sempre un gioco. Bellissimo».

Fonte: Il Corriere del Mezzogiorno.it

La Redazione

M.V.

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